Lo «Stato competitivo»
Mauro Casadio, James Petras, Luciano Vasapollo
Sono ormai anni che nel quadro della indagine sulla composizione di classe nel nostro paese e nell’area europea, ci si è dovuti misurare con una questione in molti casi rimossa dal dibattito politico e sindacale: il ruolo di classe dello Stato.
Negli ultimi tempi, il mito acritico della «globalizzazione» sembra aver messo in ombra non solo processi come la competizione intercapitalista o le relazioni internazionali fondate sulla Triade USA, Europa, Giappone ma anche, e qui si entra direttamente nel campo che si vuole affrontare, il ruolo degli Stati.
Esistono molti iconoclasti – anche a sinistra – che hanno ritenuto ormai inservibile la categoria di «comitato d’affari della borghesia» come chiave di lettura dello Stato. Tuttavia questa categoria coglie, ancora meglio di altre, la sostanza del ruolo dello Stato nel sistema politico ed economico del capitale e si rivela in tal senso ancora di estrema pertinenza.
Sul piano pratico, se è vero che lo Stato è tornato pienamente a svolgere la funzione di comitato d’affari del capitale finanziario, ciò significa che la dinamica della tassazione, degli investimenti, dei salari e dei profitti – in sostanza della distribuzione reale della ricchezza – segue un trend ben preciso che ha ricadute pesanti sulla realtà sociale e sui lavoratori. Ciò non riguarda solo i meccanismi dell’accumulazione capitalista ma chiama in causa direttamente anche la funzione dello Stato.
Per alcuni decenni, anche nella sinistra e nel sindacato, si era diffusa la convinzione che lo Stato (e soprattutto la «Repubblica nata dalla Resistenza» e «fondata sul lavoro») avesse assunto appieno il suo carattere universale, neutrale ed in un certo senso «superpartes». Aver confuso le conquiste sistematizzate in un sistema approssimativo di Welfare State con un cambiamento più profondo della natura dello Stato in questo sistema politico-economico, ha portato a sottovalutazioni clamorose e distorsioni analitiche significative.
La devastante offensiva antioperaia messa in moto nella seconda metà degli anni ’70 (a seguito della «grande paura» seguita alla grande crisi del ’73 e allo sviluppo delle lotte operaie, studentesche ma anche di quelle anticoloniali nel terzo mondo), ha via via liquidato ogni pretesa di neutralità o di universalità dello Stato del capitale e lo ha reistradato nella sua funzione storica.
La privatizzazione dei servizi, i tagli alle spese sociali, la riorganizzazione della previdenza e della sanità, l’organizzazione apertamente antipopolare del sistema fiscale centrale e locale, corrispondono ad una funzione precisa dello Stato. Esso deve gestire il continuo trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita finanziaria e al profitto. E’ una funzione perfettamente in linea con la dominanza del capitale finanziario nell’economia nazionale e transnazionale (classica nell’epoca dell’imperialismo) che ormai domina e rende subalterni tutti gli altri settori della società, inclusi quei settori del capitale troppo deboli sul piano finanziario o troppo vincolati al solo mercato interno.
Ma la modifica della funzione dello Stato rispetto a quella dei decenni del compromesso e dell’uso politico del welfare state, non produce solo «mutamenti contabili» nel bilancio statale. Essa innesca anche modificazioni notevoli nella composizione di classe ed accentua il processo di polarizzazione sociale in corso in tutte le economie sviluppate.
Ad esempio la «crisi dei ceti medi» (in cui fino a qualche anno fa si potevano includere anche settori di classe operaia e di lavoro dipendente «forte») non deriva solo dalla accresciuta finanziarizzazione dell’economia, ma anche dalla liquidazione di alcuni paracaduti sociali rappresentati dalla presenza dello Stato nelle aziende dei servizi strategici o dalla «presenza/latitanza statale» in alcune aree (basta pensare al Mezzogiorno, alle pensioni distribuite a pioggia o all’evasione fiscale consentita per il lavoro autonomo, i sussidi per settori marginali dell’economia etc.).
In questi ultimi anni, anche gli agricoltori o gli allevatori di mucche prima sussidiati, gli autotrasportatori agevolati fiscalmente, i commercianti o i taxisti in condizioni di mini-monopolio, sono stati investiti come un tornado dalle «liberalizzazioni» dei servizi e dalla competizione economica scatenata in Europa dai templari di Maastricht e dai commissari di Bruxelles.
Lo Stato è tornato ad essere il “comitato d’affari” della borghesia per sorreggerne le ambizioni e gli interessi dentro la competizione globale. La pletora di interessi e di doglianze sociali su cui era stato costruito e mediato lo Stato sociale non ha più ragione di essere. L’integrazione sovranazionale e la costruzione dei poli geoeconomici intorno all’Unione Europea e agli Stati Uniti, invocano uno Stato forte e flessibile , in sostanza uno «Stato competitivo» capace di stare dentro una competizione che ha come scenario l’intero globo.
I
Lo Stato nell’epoca della competizione globale
Il feticcio della globalizzazione sembra ormai soddisfacente anche a molti studiosi e movimenti sociali per spiegare il mondo attuale, le nuove relazioni internazionali e i nuovi rapporti di forza. Eppure la categoria della globalizzazione è molto imperfetta e sotto certi aspetti deviante. Sarebbe infatti più appropriato parlare di «competizione globale» perchè tale è l’epoca che stiamo vivendo; un’epoca in cui la competizione economica e quella politica tra le economie più forti e/o i principali poli geoeconomici (Stati Uniti ed Europa soprattutto) tenderà ad accentuarsi più che a comporsi in un unico «impero» dominato dalle società transnazionali.
Oggi infatti, la struttura di dominio internazionale del grande capitale non appare più organizzata sulla base dello «Stato nazionale» ma su poli dentro cui si coordinano vari Stati tendenzialmente sempre più omogenei sul piano economico, finanziario, monetario e militare. Ed è profondamente errato ritenere che in questo processo gli Stati non abbiano più una funzione determinante.
Lo «Stato/comitato d’affari» si è ormai allargato a livello regionale (ad esempio l’Unione Europea, le cui riunioni, secondo il Financial Times, “somigliano sempre più ad un consiglio di amministrazione) ma mantiene pienamente – anzi accresce – la sua funzione strategica di sostegno politico ed economico all’accumulazione capitalistica sia attraverso la politica fiscale e di bilancio, sia attraverso la politica commerciale ed internazionale verso le altre aree economiche e verso gli altri poli imperialisti. Infine, ma non per importanza, lo Stato viene chiamato a svolgere tale funzione anche attraverso lo strumento militare, cosa che, del resto, si è visto all’opera già due volte anche nell’ultimo decennio del secolo appena concluso (vedi Iraq e Balcani).
Si può allora affermare che la funzione dello Stato nell’epoca della competizione globale dipende innanzitutto della natura dello Stato: esistono infatti Stati «disgreganti» (forti) e Stati «disgregati» (deboli). In modo molto pertinente Eric Hobsbawm sottolinea come «una delle grandi questioni che sta di fronte al XXI Secolo è l’interazione tra il mondo dove lo Stato esiste e il mondo dove non c’è» (1)
Il processo di disgregazione statuale avviato dagli Stati più forti (USA ed Europa) contro l’Europa dell’Est ma anche contro l’Africa «decolonizzata» o l’Asia non più baluardo antisovietico (vedi l’Indonesia e in prospettiva India e Cina), confermano che questa «interazione» è uno dei progetti caratteristici della competizione globale.
Per avere una idea concreta, è sufficiente osservare una mappa geografica del mondo attuale e confrontarla con quella di dieci anni fa.
Nell’Europa dell’Est solo un decennio fa esistevano dieci Stati, oggi ne esistono ventotto (e forse diventeranno trenta se va ancora avanti il processo di disgregazione della Jugoslavia). Ma è la qualità- più che la quantità- a far riflettere. Dalle ripetute secessioni della ex Urss o dell’ex Jugoslavia, sono emersi numerosi stati piccoli o piccolissimi. Solo alcuni (undici per l’esattezza) superano i dieci milioni di abitanti.
La disgregazione di tutti gli Stati non strategici per i «poli forti» è un processo che sta marciando a tappe forzate dietro la tesi quasi religiosa della inevitabilità della globalizzazione e della sovranazionalità dei processi decisionali.
Questi nuovi Stati sono piccoli, deboli, subalterni agli organismi finanziari internazionali (FMI, BM, BERS), sono dipendenti dalla qualità degli investimenti esteri che riescono ad attrarre e dalla quantità di export competitivo che riescono a far arrivare sul mercato regionale e mondiale. A tale scopo, questi Stati devono essere «leggeri» nelle frontiere e nelle dogane, assai «indulgenti» nelle imposte e nelle tasse per gli investitori esteri, obbedienti al FMI nella politica di privatizzazioni e liquidazione dei settori statali dell’economia, puntuali nel pagamento dei debiti accumulati con le banche e gli istituti internazionali, implacabili nel mantenere basso e disciplinato il salario dei lavoratori. Infine, devono assicurare con ogni mezzo – democratico o repressivo – la «stabilità interna» per gli investitori esteri. Se non ci riescono da soli può sempre arrivare la NATO con i bombardamenti o gli interventi «umanitari».
Questa funzione disgregante e riaggregante da parte degli Stati più forti intorno ai poli principali, è ormai visibile anche ad occhio nudo :
* La funzione degli Stati Uniti rispetto all’area del NAFTA è evidentemente una funzione centralizzatrice ed egemonica sia nei confronti degli altri paesi integrati nel «polo americano» (Messico, Canada) sia nei confronti dell’area di influenza del blocco stesso (America Latina). Il progetto dell’Area di Libero Scambio delle Americhe (FTAA) previsto entro il 2005, estende questa centralizzazione a tutta l’America Latina. La dollarizzazione dell’Ecuador, del Salvador, di Panama, del Guatemala e dell’Argentina è indicativa dell’obiettivo di costruire un grande polo economico, commerciale, monetario intorno agli Stati Uniti, da contrapporre a quello europeo.
* Il Giappone, al contrario, non ha la stessa forza centralizzatrice e disgregante degli Stati Uniti. Uscito sconfitto dalla competizione con gli USA nella pesantissima «crisi asiatica» del 1997, esso non solo non ha una capacità di egemonia complessiva sul resto dell’Asia (pur mantenendo una rilevante penetrazione economica) ma deve competere con una potenza nascente come la Cina che ha dimostrato di avere ormai un ruolo strategico per la stabilità e lo sviluppo economico dell’Asia.
* L’Unione Europea infine – pur seguendo un processo che rimane più complesso – ha visto crescere la sua funzione centralizzatrice intorno all’asse franco-tedesco e la sua funzione disgregatrice verso l’Europa dell’Est (dalla disintegrazione jugoslava, alla deflagrazione dell’URSS, alla secessione ceco-slovacca). Si rivela ancora forte un limite di questo processo: in quanto fino ad ora in Europa è andata avanti la centralizzazione economica ma è andata avanti più lentamente quella politica. La Gran Bretagna si muove ancora molto più in sintonia con gli USA che con la UE . La dissonanza italiana rappresentata dal governo Berlusconi vorrebbe andare nella stessa direzione, da qui l’ostilità manifesta degli altri governi europei verso l’esecutivo italiano. Ma questo ritardo viene recuperato in tempi sempre più stretti. L’allargamento continuo dell’Unione Europea a Est e a Sud inglobando nuovi Stati (e nuovi mercati) viaggia ormai parallelamente all’organizzazione di un efficente esercito europeo e di un esecutivo più dinamico che vede la Germania acquisire un potere sempre maggiore (vedi il vertice di Nizza) (2).
La funzione determinante dello Stato nell’epoca della competizione globale non si limita però agli aspetti geo-politici e della conquista dei mercati internazionali. Anche sul piano dell’accumulazione e del mercato interno, la funzione dello Stato si conferma decisiva in settori fondamentali dell’economia capitalista.
1) La scienza e la ricerca ad esempio, vanno visti nel loro ruolo di forze produttive sempre più decisive nella competizione globale. Anche se i loro risultati vengono in gran parte monopolizzati dal profitto privato, il loro raggiungimento richiede forti investimenti di capitale e possibilità di ammortizzazione dei costi che ancora oggi possono essere assicurati solo dallo Stato. Il caso delle biotecnologie è, in tal senso, emblematico. I due ultimi governi tedeschi (democristiano prima e socialdemocratico poi) hanno lanciato un ambiziosissimo piano di sviluppo dell’industria e della ricerca biotecnologica. Nonostante in Germania ci siano ben tre delle prime cinque multinazionali chimiche-farmaceutiche del mondo, senza l’intervento economico dello Stato non avrebbero potuto recuperare il gap e reggere la competizione con le transnazionali USA. Lo scontro tra la Bayer e la Pfizer sui farmaci o la legislazione europea verso gli OGM, sono indicativi di questo conflitto e del crescente ricorso alle leggi dello Stato per intralciare la penetrazione delle società concorrenti sui rispettivi “mercati interni”.
2) La formazione del «capitale umano» adeguato e funzionale alle nuove esigenze della accumulazione flessibile, è un compito che viene svolto in larga parte dallo Stato. La gestione aziendalista di scuole, università, centri di formazione tende sì a privatizzare la riproduzione e la gestione del comando (l’insegnamento) ma continuerà ad affidare gran parte dei costi sociali allo Stato.
3) La stabilità del mercato interno continua a vedere un ruolo centrale dello Stato. Anche se le privatizzazioni hanno via via ridotto la presenza statale nell’economia, l’andamento dei flussi della domanda interna richiedono ancora e massicciamente l’intervento statale senza il quale, il «mercato» si è dimostrato incapace di assicurare i margini di profitto all’accumulazione capitalistica. La vicenda della rottamazione delle automobili, i progetti di cablaggio delle grandi aree metropolitane, la ristrutturazione delle reti energetiche e l’estensione di quelle dei trasporti, dimostrano che i padroni in realtà vogliono » più Stato per il mercato».
4) Infine si dovrebbe riflettere sul fatto che non è risultato affatto trascurabile il ruolo degli interessi nazionali dello «Stato francese» nel bloccare in sede OCSE l’approvazione dell’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (il famigerato AMI), o il «ruolo degli Stati» nel fallimento delle trattative della WTO a Seattle o le forzature degli interessi nazionali dello «Stato USA» sulle reticenze delle multinazionali statunitensi del petrolio in relazione ai tracciati che dovevano seguire gli oleodotti dal Mar Caspio. Sono esempi su cui, appunto, occorre riflettere prima di tracciare giudizi frettolosi e quindi imprecisi sull’esaurimento delle funzioni dello Stato.
NOTE:
(1) Eric Hobsbawn: «Intervista sul nuovo secolo», edizioni Laterza, 2000
(2) Sugli esiti del vertice e gli obiettivi del Trattato di Nizza, vedi Guglielmo Carchedi in Contropiano, febbraio 2001
II
Lo Stato come strumento del conflitto sociale
Non ci interessa tediare con l’analisi storica del ruolo dello Stato nell’economia capitalista. Su questo hanno scritto e sono disponibili testi rigorosi e ponderosi. E’ interessante invece ricostruire il filo che ha legato l’intervento statale nell’economia dei paesi capitalisti al suo ruolo politico giocato nel conflitto globale avvenuto sia a livello internazionale che all’interno della società.
Il New Deal americano, il fascismo europeo ed infine lo stato sociale o welfare state, sono state anche armi da combattimento con cui il capitalismo ha giocato a tutto campo contro la minaccia di un rovesciamento dei rapporti di forza con il movimento operaio.
Il pesante intervento statale nell’economia non rispondeva solo alla necessità di rilanciare la domanda interna nella fase peggiore della «grande depressione» (il New Deal) o alla costruzione di un regime corporativo che garantisse con straordinaria efficacia il dominio della borghesia sui lavoratori liquidando il conflitto sociale (il fascismo). Il ruolo regolatore e consistente dello Stato nel mercato è servito soprattutto a depotenziare la spinta alla trasformazione radicale della società che veniva dal movimento operaio. Lo Stato sociale perfeziona queste esperienze e nasce per costituire lo spazio possibile per le riforme e per dargli rappresentanza politica – in antagonismo all’opposizione del movimento operaio e dei comunisti – attraverso i governi, i partiti e i sindacati egemonizzati dai socialdemocratici oppure, a secondo delle situazioni, attraverso le forze cattoliche.
Nel dopoguerra, pur lasciando mano libera agli «spiriti animali» del capitalismo che affiancavano il Piano Marshall (anche per la loro indubbia capacità di rimettere rapidamente in moto l’accumulazione e il mercato in paesi devastati dalla guerra), i governi europei hanno via via costruito sistemi di welfare state più o meno avanzati che si sono rivelati capaci di spezzare il blocco sociale antagonista (fondato allora su operai e contadini) e di creare una ampia fascia di ceti medi come «argine sociale» all’avanzata del movimento operaio.
Questa nuova composizione di classe ha consentito ai partiti socialdemocratici di costruire la propria strategia ed il proprio ruolo di mediazione dello scontro sociale tra lavoratori e capitale ed ha permesso ai partiti cattolici di allargare la propria influenza ben oltre quella tradizionale sul mondo contadino.
Secondo lo studioso Wolfgang Abendroth, la socialdemocrazia tedesca, ad esempio, «condivideva sempre più apertamente la convinzione della sociologia borghese che la moderna economia di mercato, cioè il capitalismo monopolistico, combinata con le concessioni sociali (e quindi mediate dallo Stato) e salariali, aveva superato il conflitto di classe creando una «società pluralistica» che non conosceva più antagonismi sociali» (1)
Altrettanto istruttiva è la sintesi del cosiddetto «modello scandinavo» avanzata da Bruno Amoroso. «Alla base del modello scandinavo» scrive Amoroso «c’è l’accordo tra il movimento operaio organizzato, rappresentato dalla socialdemocrazia…e le classi sociali riunite intorno alla borghesia capitalistica industriale e agraria. Non si tratta di un patto sociale limitato ad un settore particolare…ma di un vero e proprio accordo politico mediante il quale vengono fissate le rispettive aree di intervento e competenza in un quadro anch’esso modificato, dando così luogo ad una nuova forma di organizzazione sociale» (2).
Ma se si vuole riflettere sulla natura e la funzione dello «Stato/comitato d’affari», non si può limitare a segnalare il welfare state come unico rivelatore di questo ruolo. L’intervento dello Stato come sistema di supporto al capitalismo si è dotato anche di altri strumenti.
Ben prima del compromesso storico tra DC e PCI (che configura pienamente quella che è stata definita l’anomalia italiana), la prima esperienza significativa di intervento dello Stato nell’economia sia come fattore di sostegno al capitale sia come fattore di mediazione sociale, è stato sicuramente il primo governo di centro-sinistra negli anni ’60.
«Dopo il predominio dell’approccio liberale, che caratterizza il periodo della ricostruzione» scrive l’economista Giovanni Balcet «l’influenza delle idee keynesiane e l’attrattiva delle esperienze estere di welfare state acquistano importanza nel corso degli anni sessanta». Ma in quegli anni non c’è solo il debutto di un timidissimo stato sociale. In Italia si sviluppa un intervento diretto ed esteso dello Stato anche nella sfera produttiva.»Nel 1956, la creazione del Ministero delle Partecipazioni Statali sanziona tale evoluzione» segnala ancora Balcet. Non solo, le industrie pubbliche (IRI,ENI,EFIM), successivamente bistrattatissime, fanno parlare di un «sistema italiano di economia mista, pubblica e privata, spesso citato come modello» (3).
Il governo di centro-sinistra avviò la clamorosa nazionalizzazione dell’ENEL. Una specifica relazione della Banca d’Italia scriveva che al dicembre 1969 «erano state trasferite all’ENEL 1.124 imprese, 1.075 erano state già integrate nell’Ente. Il personale ammontava a 103.370 unità. Al primo gennaio 1970 erano stati pagati circa 1.392 miliardi di indennizzi» (4).
Ma saranno proprio gli indennizzi plurimiliardari pagati alle imprese private per la nazionalizzazione dell’ENEL che contribuiranno a mettere in moto anche in Italia il mercato dei capitali e consentirannono – ad esempio – la nascita di un nuovo grande gruppo privato come la Montedison.
La nazionalizzazione dell’ENEL, il rafforzamento dell’IRI (nata dal fascismo), la nascita dell’ENI e via via fino alla creazione del Ministero delle Partecipazioni Statali, segnano una intera fase dello sviluppo capitalistico nel nostro paese.
Lo Stato affianca apertamente le esigenze delle imprese sia allargando il mercato (entrando nel MEC, il Mercato Comune Europeo) sia costruendo le infrastrutture funzionali al ciclo centrale dell’automobile (es: le autostrade) e dell’industrializzazione pesante delle Partecipazioni Statali (es: la rete elettrica e i grandi impianti siderurgici)
Sono gli anni in cui la «programmazione economica» ovvero la centralità/collateralità dello Stato nello sviluppo dell’economia di mercato, entra nel linguaggio politico ed economico. Lo Stato affianca e sostiene così il «boom» italiano che crea le condizioni per l’integrazione dell’Italia nella Comunità Economica Europea.
Ma questo ruolo non risponde solo agli input dei grandi monopoli privati. Esso risponde anche alle esigenze della politica e della mediazione dello scontro sociale.
La nascita di grandi aziende pubbliche crea l’illusione di un possibile argine allo strapotere dei monopoli privati che a questo punto dovrebbero convivere e competere con quelli statali sia nella ripartizione delle risorse disponibili sia sul mercato. Il PCI fa propria questa chiave di lettura (arrivando poi all’estremo di ritenere questa come «l’introduzione di elementi di socialismo nella società capitalista»).
Infine, lo sviluppo di una economia mista con un forte settore pubblico affiancato a quello privato, rafforza la crescita dei ceti medi e di settori di lavoro salariato garantito che diventeranno via via la riserva di caccia della DC, del PSI e da un certo punto in poi anche del PCI, ma incrinando la composizione di classe emersa dalla prima metà del Novecento.
NOTE:
(1) Wolfgang Abendroth. «La socialdemocrazia in Germania». Editori Riuniti, 1980 p.90
(2) Bruno Amoroso: «Rapporto sulla Scandinavia», Laterza, 1980 p.31
(3) Giovanni Balcet: «L’economia italiana». Editori Riuniti, 1997, p.60-61
(4) Relazione del governatore della Banca d’Italia, maggio 1970
III
«Lo Stato del tesoro»
Nella demolizione dei miti, condizione necessaria per una analisi di classe dello Stato, occorre demistificare la concezione dello Stato come entità superpartes, ma anche quella dello «Stato assistenziale», in quanto esso interviene sia nelle fasi di crisi sia nelle fasi di accumulazione in modi e forme storicamente determinate agendo nella sfera della produzione come in quella della circolazione. Nel primo caso, ad esempio, con le nazionalizzazioni e le Partecipazioni Statali e nel secondo sotto forma di imprese pubbliche creditizie e di servizi.
Gli anni ’90 hanno segnato la liquidazione del ruolo dello Stato nella produzione con lo smantellamento delle imprese a Partecipazione Statale e le privatizzazioni di banche, industrie, aziende di servizi. Ma hanno segnato anche l’avvio di una ristrutturazione profonda della spesa pubblica che alla fine degli Ottanta era arrivata a rappresentare tra il 50 e il 55% del PIL (era il 29% nel 1960).
Ma anche il mito della spesa pubblica – sul quale si accaniscono i liberisti e gli anti-statalisti di comodo- va disaggregato e riaggregato con chiavi di lettura più oneste.
In un seminario tenuto a Roma nel novembre del ’97, una ricercatrice rigorosa come Simona Tomassini ha ricostruito molto bene le dinamiche della spesa pubblica in Italia. (1)
Seconda la Tomassini, la spesa pubblica non è indifferenziata. Essa risponde a criteri di distribuzione ben precisi che vanno smascherati e concosciuti per quello che rappresentano veramente. Si può allora suddividerla in almeno tre aree:
1) La spesa per la riproduzione degli apparati funzionali all’amministrazione statale;
2) La spesa per il sostegno al capitale;
3) La spesa sociale vera e propria destinata ai servizi cioè il salario sociale
Sulla base di questa disaggregazione si può allora analizzare il «moloch» della spesa pubblica nell’ultimo quarantennio.
Suddivisione dei settori della spesa pubblica in %
1960 | 1973 | 1994 | |
Spese per gli apparati dello Stato | 12,1 | 10,6 | 11,9 |
Spese per il sostegno al capitale | 30,8 | 24,1 | 32,8 |
Spesa sociale | 57,1 | 65,3 | 55,3 |
(Fonte: elaborazione di Simona Tomassini su dati contenuti in: «Il disavanzo pubblico in Italia, natura strutturale e politiche di rientro». Il Mulino, 1992
Se nel 1960 la spesa pubblica rappresentava il 29% del PIL, quanta di questa veniva destinata ad ognuna delle tre funzioni indicate? Il 12,1% serviva per le spese degli apparati funzionali all’amministrazione statale; il 57,1% per le spese sociali e il 30,8% per il sostegno al capitale privato. Trenta anni dopo, le spese per l’amministrazione dello Stato rimanevano pressochè uguali (11,9%), cresceva la quota di spesa pubblica destinata ad interventi di sostegno alle imprese e diminuiva la spesa sociale vera e propria sia rispetto al 1960 sia – e soprattutto – al 1973 che aveva segnato anni di forti avanzamenti delle conquiste sociali dei lavoratori.
Dunque un terzo della spesa pubblica è stato destinato al capitale e solo poco più della metà ai servizi sociali. E’ chiaro che l’offensiva anti-statalista scatenata nell’ultimo ventennio è indirizzata esplicitamente a rovesciare questa proporzione puntando alla drastica riduzione delle spese sociali per liberare risorse da destinare alle imprese. Quando i leader politici o il governatore della Banca d’Italia parlano di riduzione delle tasse, hanno in mente esattamente questo schema, evitano però sistematicamente di indicare «chi» dovrà finanziare questo spostamento di risorse.
Le terapie d’urto: il Profit State
I poteri fondamentali dello Stato nell’economia si concentrano soprattutto su due leve in cui agisce in condizioni di monopolio: la moneta e la riscossione delle tasse.
La prima leva è stata ormai sovranazionalizzata con l’adozione dell’Euro e la perdita della sovranità nazionale sulla moneta. La seconda leva resta così quella decisiva.
Lo Stato «superpartes» in teoria riscuote le tasse da tutti i suoi cittadini in modo progressivo e redistribuisce attraverso servizi. Il boom del debito pubblico e il pagamento degli interessi ai possessori dei titoli di stato, hanno già in buona parte frantumato questa leggenda. In secondo luogo, abbiamo assistito ad una «distribuzione» della ricchezza che è andata sempre in direzione delle rendite e dei profitti penalizzando pesantemente i salari.
La distribuzione del reddito nazionale negli ultimi venti anni
1980 | 1999 | |
Quota andata ai salari : | 56% | 40% |
Quota andata alle rendite : | 22% | 31% |
Quota andata ai profitti : | 21% | 28% |
In realtà, è soprattutto una parte della società – i lavoratori salariati – quella su cui si è abbattutto il monopolio statale della riscossione fiscale. Non esiste infatti proporzione tra le entrate fiscali assicurate dal lavoro e quelle assicurate dal capitale. Inoltre non occorre lasciarsi ingannare dalla apparente equità delle imposte indirette (quelle sui consumi soprattutto) perchè esse proprio perchè uguali per tutti, non sono affatto progressive (nel senso che una imposta del 20% su un bene di consumo è uguale sia per Agnelli che per un disoccupato). Si osserva l’andamento delle imposte dirette (gran parte dovuta all’Irpef) e delle imposte indirette (dovute soprattutto all’IVA), il quadro che si denota appare piuttosto chiaro:
1987 | 1990 | 1995 | 1999 | |
Imposte dirette | 130.611 | 189.124 | 260.127 | 321.587 |
Imposte indirette | 93.240 | 139.465 | 209.490 | 326.421 |
Contributi sociali | 120.988 | 168.953 | 231.671 | 263.003 |
1987 | 1990 | 1995 | 1999 | |
Occupati: Dipendenti e autonomi |
20.837 | 21.304 | 20.009 | 20.692 |
(Fonte: Relazioni della Banca d’Italia)
Ma il quadro diventa ancora più chiaro se analizziamo il rapporto tra l’Irpef pagata sui salari dei lavoratori dipendenti ed il numero di lavoratori dipendenti stessi.
Imposte e salari dei lavoratori
1993 | 1996 | 1997 | 1998 | 1999 | 2000 | |
miliardi di Irpef | 102.804 | 121.179 | 132.703 | 141.142 | 154.246 | 152.981 |
Lavoratori dipendenti |
15.803 | 15.655 | 15.776 | 15.950 | 16.157 | 16.406 |
Fonte: Relazione annuale della Banca d’Italia
Se si confronta il trend delle imposte dirette (dunque le imposte sul reddito delle persone fisiche rappresentate soprattutto dai redditi da lavoro e delle abitazioni e dall’Irpeg) con quello dei lavoratori occupati, sia come salariati sia come «autonomi», è possibile verificare anche ad occhio nudo come un numero pressochè identico di lavoratori ha pagato sempre più imposte.
Se nel 1987 circa venti milioni di lavoratori si facevano carico di gran parte dei 130mila miliardi di imposte dirette, nel 1999 un numero pressochè identico di lavoratori si è fatto carico della gran parte di ben 321mila miliardi di imposte dirette. Analogamente su un numero praticamente uguale di lavoratori, sono stati pagati più del doppio di contributi sociali. In compenso il monte salari nello stesso periodo è sceso più o meno del 16% sulla ricchezza nazionale del paese.
Ma se osserviamo l’andamento specifico dell’Irpef sui salari dei lavoratori dipendenti, verifichiamo come nella seconda metà degli anni ’90, ad una crescita dell’occupazione (precaria e atipica) di circa 600.000 unità nel 2000 rispetto agli anni duri «dell’entrata in Europa»(il 1993), le imposte pagate dai e sui salari sono aumentate di ben 50.000 miliardi di lire. Ciò significa che l’Irpef media pagata su un salario da lavoro dipendente nel 1993 era di 6milioni e 470 mila lire e che sette anni dopo era salita a 9milioni e 320mila. In questo stesso periodo i salari sono rimasti al palo e non sono certo cresciuti con la stessa progressione.
1987 | 1990 | 1995 | 1999 | |
Entrate statali (in % sul PIL) |
39,8 | 42,7 | 45,9 | 46,9 |
Spesa pubblica (in % sul PIL) |
50,7 | 53,8 | 52,9 | 48,8 |
Indebitamento netto (% sul PIL) | 11,0 | 11,1 | 7,0 | 1,9 |
Fabbisogno settore pubblico (in % sul PIL) |
11,3 | 10,6 | 7,3 | 1 |
(fonte: relazioni Banca d’Italia, 1997 e 2000)
In dieci anni di terapie d’urto all’insegna dei parametri di Maastricht, la spesa pubblica è diminuita del 5% sul PIL mentre le entrate fiscali dello Stato sono aumentate del 4,2%.
In sintesi l’integrazione europea dell’Italia sta producendo visibilmente un aumento delle tasse ed una diminuizione delle prestazioni sociali ne risulta, pertanto, che il «patto» tra lo Stato e i cittadini è stato apertamente rotto dallo «Stato/Comitato d’affari» che recupera e convoglia la ricchezza verso ambiti precisi e contrapposti tra loro: recupera dal lavoro e convoglia verso il capitale.
Anche l’ultima analisi annuale che Mediobanca realizza sui bilanci delle 1.828 principali società italiane dell’industria e del terziario (i famosi «libri bianchi») segnala piuttosto chiaramente la riduzione impositiva a vantaggio delle grandi società (2). Questo trend è stato particolarmente evidente nella seconda metà degli anni ’90 ovvero negli anni dei governi dell’Ulivo. Sono anche gli anni in cui i profitti di queste società sono aumentati del 50% rispetto al ’97 e del ‘78% rispetto al ’98. Nel 1999 i profitti avevano raggiunto e superato i 20.000 milioni di euro.
A fronte della crescita di questa ricchezza privata, le spese sociali continuano a diminuire, i salari restano al palo ed anzi perdono potere d’acquisto, gli investimenti ristagnano ed anzi diminuiscono, l’occupazione cresce nelle sue caratteristiche precarie e sottopagate.
Viene così confermata la tesi di Rita Martufi e Luciano Vasapollo secondo cui «i mutamenti dovuti all’accumulazione flessibile che determinano la crisi fiscale e l’aumento dei costi del Welfare non sono più compatibili in un sistema di alta competitività internazionale» (3). E’ questa la sostanza del Profit State.
NOTE:
(1) Simona Tomassini in «Lo Stato A/Sociale. Salario sociale, distribuzione del reddito e ruolo dello Stato nell’economia dagli anni ’70 agli anni ’90», AAVV, edizioni Laboratorio Politico, giugno ’98
(2) «Dati cumulativi di 1.828 società italiane». Mediobanca, 2000
(3) Rita Martufi e Luciano Vasapollo: «Profit State. Redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo». Edizioni la Città del Sole, 1999.
IV
La trappola dello Stato «federale»
Il dibattito politico/istituzionale, è stato caratterizzato dal varo della riforma federalista dello Stato che modificando la Costituzione delega alle regioni molti poteri e molte competenze.
Si è così assistito al paradosso per cui mentre la “sinistra” tuonava contro la devolution di Formigoni e Bossi in Lombardia o lo statuto “secessionista” della Regione Veneto, il governo di centrosinistra – ispirato da apprendisti stregoni come il ministro Bassanini o dalle teste d’uovo emiliane dei DS- partoriva un modello federalista di Stato che recepisce ampiamente le ambizioni delle regioni settentrionali amministrate dal Polo e dalla Lega.
La parola magica della sussidiarietà – rovesciata nel suo contrario – spiana così la strada alle privatizzazioni selvagge di tutti i servizi pubblici, sia affidandoli a soggetti privati sia consegnandoli nelle mani del crescente business del cosiddetto “non profit”. La trappola del federalismo liberista è dunque scattata senza alcuna opposizione (ad eccezione dei parlamentari del PRC) (1).
L’aziendalismo esasperato sopprime, ormai, qualsiasi rete di servizi sociali o pubblici e si impone come modello di amministrazione degli enti locali che si trovano ormai a gestire quote sempre più rilevanti del bilancio pubblico.
Secondo un recente rapporto del CNEL, il federalismo economico è già una realtà perchè, ormai, la spesa pubblica sotto il diretto controllo dello Stato rappresenta solo un terzo di quella affidata a Regioni, Comuni e Province.
Analizzando i 9.333 capitoli di spesa del bilancio di previsione del 2001, emerge che la spesa dello “Stato centrale” ammonta a 93.041 miliardi mentre quella degli enti locali ammonta a ben 269.642 miliardi. E’ una quota assai superiore, sostiene il CNEL, anche a quella dei paesi più federalisti del mondo come Stati Uniti e Germania (2).
Anche risistemando i capitoli di spesa (ad esempio quelli per l’istruzione) la spesa pubblica destinata agli enti locali resterà comunque superiore a quella dell’amministrazione centrale.
Paese | Quota della spesa pubblica degli enti locali sul totale |
Italia | 74,3% |
Germania | 57,5% |
Stati Uniti | 38% |
Francia | 29,3% |
Gran Bretagna | 26,4% |
(elaborazione su dati del CNEL, 2001)
Il boom delle entrate fiscali delle amministrazioni locali
(in miliardi di lire)
1991 | 1992 | 1993 | 1996 | 1997 | 1998 | 1999 |
28.330 | 32.619 | 42.731 | 67.076 | 71.333 | 120.409 | 115.493 |
(Fonte: relazione annuale Banca d’Italia, maggio 2000)
In dieci anni le entrate fiscali degli enti locali sono quasi quadruplicate, mentre i trasferimenti dallo Stato alle amministrazioni locali sono diminuiti dai 138.757 miliardi del 1990 ai 110. 252 del 1999.
Il trend delle entrate fiscali allo Stato centrale è aumentato ma con un tasso inferiore a quello delle imposte locali.
Da gennaio del 2001 è entrata in vigore anche l’addizionale Irpef per i Comuni (con una aliquota che va, per ora, da un minimo 0,2 ad un massimo dello 0,4%) e che va ad aggiungersi a quella regionale già operante, mentre sta scaldando i motori l’entrata in vigore della addizionale per le Province.
E’ un perverso meccanismo contabile che ha permesso al governo Amato di annunciare nella Legge Finanziaria 2001 una riduzione delle tasse statali mentre queste vengono reintrodotte a livello locale neutralizzando qualsiasi beneficio fiscale reale per i redditi.
Siamo dunque alla vittoria dei federalisti e dei critici dello statalismo? I dati dicono di si. Viene così coronata la battaglia ingaggiata dalla Lega Nord ma anche la “germanizzazione” dello Stato propugnata dal laboratorio emiliano dei DS guidato dall’Assessore Mariucci e dal ministro Bersani, dagli opinionisti della “Repubblica” come Rampini o dal “kommissar” europeo Romano Prodi (3).
Questo gigantesco trasferimento di risorse economiche dallo Stato alle amministrazioni locali insieme alla pesantissima privatizzazione delle aziende dei servizi locali, sposta notevolmente la gestione dei centri di potere economico ma anche politico, ridisegnando la mappa dei poteri e i flussi degli interessi materiali in gioco.
A questo punto biosgna però porsi una domanda. Chi sono i critici dello statalismo e i sostenitori del federalismo trionfante? Siamo sicuri che si tratti solo di illustri statisti, degli eredi di Salvemini, dei supporter del decentramento come strumento di democrazia e partecipazione?
La nostra inchiesta ha portato a risultati diversi ed assai inquietanti.
La nuova classe dirigente «federalista»
L’assalto mosso dai nuovi boiardi alla opportunità offerte dalla riorganizzazione federalista delle istituzioni e dell’economia, è passato quasi inosservato, anzi, sotto molti aspetti esso è stato anticipatore di quello lanciato a livello centrale che ha portato alla nascita del Profit State e al dominio monopolistico dell’economia.
A lanciare un flebile allarme, oltre a pubblicazioni come la nostra o a pezzi del sindacalismo di base, era stato lo scomparso Armando Sarti che per molti anni é stato presidente della Cispel (la “confederazione” delle aziende municipalizzate dei servizi locali).
Nella introduzione del 13° Rapporto della Sudgest, un anno fa, Sarti denunciava il rischio della penetrazione dei monopoli stranieri nei servizi locali e sottolineava come “liberalizzare e privatizzare qualunque sia il periodo di concessione delle reti, rappresenta una grave rinuncia perchè si costituirebbero atti impropri e decisioni assunte fuori da una stringente logica di salvaguardia del pubblico interesse. Le reti, quelle dell’acqua e dell’energia, sono parte fondamentale e non separabile dal territorio” (4).
L’ex presidente della Cispel, dunque sembrava aver compreso il segno che stavano prendendo la corsa alla privatizzazione dei servizi locali ovvero un business che, come sosteneva lo stesso Sarti, dopo essere stato considerato per anni un settore secondario e trascurato anche dalla politica, era venuto acquisendo una “inedità centralità”.
Ma l’assalto alle risorse e ai poteri locali, non può essere imputato solo ad alcuni nuovi squali delle finanza che si sono gettati come guerriglieri nella privatizzazione di tutti i servizi locali. Emergono infatti le responsabilità del nuovo ceto politico, quello emerso sulla liquidazione del vecchio ceto attraverso Tangentopoli, che sono pesanti ed evidenti.
Il progetto federalista incarna infatti la riorganizzazione istituzionale avviata già nei primi anni ‘90 e che ha consegnato via via nelle mani dei sindaci e poi dei presidenti delle regioni e delle province poteri sempre crescenti, alimentandone le ambizioni (vedi il “partito dei sindaci” e poi la “lobby dei governatori”) e consentendo di creare una rete di privilegi e di potere che ha creato una nuova classe dirigente ricchissima, arrogante e pericolosa.
La celebrazione di questa nuova classe dirigente viene anticipata già dal CENSIS che è stato un pò il mallevadore di questo nuovo ceto politico ed economico locale fortemente integrato con i nuovi processi di riorganizzazione del capitale su base internazionale (l’integrazione europea soprattutto). “Il riformarsi delle classi dirigenti non può escludere una connessione con i rapidi processi di internazionalizzazione da un lato e di polarizzazione locale dello sviluppo dall’altro, tanto da lasciare spiazzate proprio le fasce di élite più lontane sia dal globale che dal locale” scriveva il CENSIS quattro anni fa .
In questa analisi c’è l’esatta fotografia della nuova polarizzazione dei poteri tra una istanza sovranazionale dall’alto (la Commissione e l’Unione Europea) e le istanze di potere locali (le regioni o i land) che schiacciano sia il Parlamento ridotto ormai per il 70% delle sua attività a ratificare le direttive europee, sia il governo nazionale privato dalle istituzioni europee di quote sempre più ampie di poteri e di sovranità nazionale (sulla moneta, sui provvedimenti economici e sociali, sulle misure antimonopolistiche che vengono sistematicamente annullate da Bruxelles o Strasburgo).
La nuova classe dirigente è dunque “europeista” ma fortemente radicata sui poteri locali. E’ fortemente integrata con la politica e lo è assai più che ai tempi del CAF, dando così vita a veri e propri comitati d’affari che prosperano indistintamente con le amministrazioni del centro-destra come con quelle di centro-sinistra, anzi queste ultime hanno dimostrato una maggiore compenetrazione e capacità di anticipazione del processo di formazione di questo ceto politico/affarista.
Anche il CNEL coglie questo processo di formazione di un nuovo ceto politico dentro le dinamiche realizzatesi negli anni ‘90, dove “va maturando una nuova classe dirigente unita da un tessuto connettivo forte, stratificato, rappresentativo di ogni area sociale. E’ evidente che la nuova classe dirigente trova uno dei suoi punti di forza nella molteplicità degli attori che sono entrati a far parte della dialettica sociale e produttiva”.
Per il CNEL, i nuovi attori sono appunto i soggetti politici ed economici locali che, come diceva Sarti, sono venuti acquisendo nuova centralità – ad esempio – anche attraverso il decentramento della concertazione ovvero i Patti Territoriali o i contratti d’area (5).
Tesi come queste, sono alla base di quei paragrafi della nuova legge federalista che spiana la strada alla regionalizzazione dei contratti di lavoro e dello Statuto dei Lavoratori. In sostanza viene rotta l’unità contrattuale nazionali dei lavoratori e viene così introdotto un ulteriore elemento di disgregazione della rigidità della forza lavoro che, bene o male, nei parametri dei contratti nazionali di lavoro e nello Statuto dei Lavoratori aveva dei punti di riferimento e resistenza uguali su tutto il territorio nazionale.
I nuovi boiardi
Una analisi su chi siano coloro che hanno tratto benefici, arricchimento e potere dalla riorganizzazione federalista e dall’assalto ai servizi locali, rivela uno spaccato di figure sociali ed istituzionali che reggono nelle proprie mani quote crescenti di poteri e di ricchezza pubblica “privatizzata”.
E’ infatti ancora la “politica” , nonostante affermi il contrario, il terminale che smista i nuovi poteri e le risorse. Le privatizzazioni e le esternalizzazioni dei servizi mantenendo agli enti locali i soli compiti di “progettazione”, è stato l’arnese da scasso con cui sono state costruite le nuove lobby politico/finanziarie. L’aziendalizzazione selvaggia dei Comuni e degli enti locali, ha offerto ad esse uno spazio di manovra illimitato.
Esiste ormai una pletora di consulenti, dirigenti degli enti locali, dirigenti delle ASL, di managers del no profit, di amministratori locali e di managers e amministratori delle aziende locali privatizzate, che costituiscono un blocco sociale che dispone di redditi elevatissimi, di pacchetti azionari, di prebende e di complicità strettissime. Costoro già governano o si apprestano a governare la “nuova centralità dei poteri locali” disponendo di una spesa pubblica crescente grazie al federalismo e di un sistema di potere blindato dalle riforme istituzionali ed elettorali, riforme che hanno introdotto il sistema maggioritario a livello locale ancora prima che a livello centrale.
Un esempio in tal senso viene da un episodio locale ma emblematico.
Alcuni anni fa, anticipando una scelta che si estenderà poi ad altri comuni (soprattutto di centro-sinistra, sic!), l’amministrazione comunale di Bologna, decide di privatizzare le farmacie comunali. Qualche anno dopo si viene a scoprire che l’ex city-manager del comune di Bologna, il sig. Sante Fermi, è diventato l’amministratore delegato della Gehe, una multinazionale tedesca della distribuzione farmaceutica, che si sta accaparrando sistematicamente tutte le ex farmacie comunali privatizzate di Bologna, di Milano e di Cremona.
E’ doveroso sottolineare come all’epoca delle privatizzazioni e dell’amministrazione manageriale del comune del sig. Fermi, al governo della città non c’era il bottegaio Guazzaloca ma gli “efficenti amministratori” dei DS .
Analogamente, il modello Lombardia di Formigoni, si compenetra assai profondamente con quello delle giunte di centro-sinistra, nella gestione della sanità, lasciando sempre maggiore mano libera ai privati nella acquisizione e gestione degli ospedali. Se il presidente della giunta lombarda “ha fatto la felicità e spesso anche la fortuna degli imprenditori ospedalieri privati” scrive l’inserto economico del maggiore quotidiano italiano “quasi tutte le regioni, dal Piemonte al Veneto, fino alla giunte uliviste di Toscana ed Emilia-Romagna, sembrano concedere più libertà d’azione agli ospedali privati” sostiene il Corriere della Sera.
La ciliegina sulla torta di questo processo di privatizzazione/aziendalizzazione della sanità, viene ancora una volta dalla “politica”. Abbiamo infatti scoperto che un recente decreto ministeriale i dirigenti delle ASL si vedranno raddoppiare lo stipendio che potrà arrivare fino a 430 milioni all’anno. Il provvedimento non riguarda solo i manager delle aziende del Servizio Sanitario Nazionale (ASL e ospedali scorporati) ma anche le altre due figure della “triade di comando” cioè il direttore sanitario e il direttore amministrativo che però guadagneranno….il 25% in meno del loro capo (guadagneranno così solo 307 milioni all’anno).
Il contratto per il direttore generale è un contratto di diritto privato di durata non inferiore a tre e non superiore ai cinque anni, rinnovabile, il suo incarico è però incompatibile con incarichi politici o amministrativi locali e nazionali.
I tre elementi indicati, messi in relazione allo stato del servizio sanitario offerto agli utenti e alle condizioni di lavoro e salariali dei lavoratori della sanità, danno perfettamente l’idea di quanto gli interessi materiali e morali della nuova classe dirigente confliggano apertamente con quelli della collettività.
Tra Nuova Tangentopoli e le contee di Nottigham
Ma la nostra inchiesta non può che allargarsi ad altri campi in cui i nuovi boiardi del federalismo sono passati all’assalto della ricchezza sociale.
Recentemente, la Corte dei Conti ha condannato l’ex Sindaco di Roma Rutelli e la Giunta, a risarcire circa 3 miliardi e mezzo di lire le casse comunali, per i soldi spesi in consulenze esterne.
La condanna del tribunale contabile ha suscitato un vespaio, soprattutto perchè la distribuzione delle parcelle d’oro ai consulenti è un fenomeno assai diffuso ed utilizzato da quasi tutte le amministrazioni locali di medie/gradi dimensioni e che ha dato vita ad un nuovo modello di Tangentopoli, sostituendo l’assegnazione degli appalti con l’assegnazione di consulenze agli amici e agli amici degli amici. Rutelli si è difeso come Craxi sostenendo che….fanno tutti così.
Ma questo delle consulenze, è uno degli effetti più evidenti dell’introduzione di leggi “federaliste” (la 142/90 ma anche la127/97 voluta da Bassanini) che assegnano maggiori poteri ai sindaci e agli esecutivi locali: “Gran parte di queste flotte di consulenze sfugge alla rete dei controlli” scrive infatti il Sole 24 Ore “ soprattutto da quando le delibere sfuggono al controllo dei Coreco” (i comitati regionali di controllo, NdR) sulla base della nuove leggi. Secondo la relazione del procuratore regionale della Corte dei Conti del Piemonte, il ricorso alle consulenze esterne è diventato talmente frequente da assorbire buona parte del bilancio dei singoli enti .
Ma un’altra fonte di business e prebende “locali” incentivati e poi legittimati dalla riforma federalista è quello delle esattorie locali.
Gli sceriffi di Nottigham
(numero di sportelli delle concessionarie per la riscossione dei tributi locali)
Campania | 94 | ||
Emilia-Romagna | 59 | ||
Lazio | 65 | ||
Lombardia | 178 | ||
Marche | 28 | ||
Piemonte | 87 | ||
Puglia | 85 | ||
Sicilia | 55 | ||
Toscana | 67 | ||
Veneto | 95 |
(Fonte: Ascotributi)
Anche qui è stata una inchiesta della magistratura (la Procura di Latina) a scoperchiare un verminaio sul quale il governo Amato si è affrettato a rimetterci sopra un macigno liquidando il potere di controllo del Ministero delle Finanze sulle società che gestiscono le esattorie comunali.
Lo scandalo è scoppiato con l’inchiesta sulla società che gestiva l’esattoria nel Comune di Aprilia (anche qui una giunta di centro-sinistra e con il PRC in maggioranza).
In questo caso, la A.Ser. società indicata dal Consiglio Comunale di Aprilia per la riscossione dei tributi comunali (ICI, Tarsu, Tosap, ICP) riscuoteva un “aggio” del 30% sui tributi riscossi invece dell’1,5% previsto dalla legge. Alla stessa società verrà poi affidato il servizio di riscossione anche da parte di altri comuni del Lazio (dove la maggioranza è invece di destra). La gestione privata della riscossione, ha fatto sì che alla fine, l’aggio che i soci privati dell’A.Ser. si distribuiscono tra loro arrivi fino al 70%. Ovvero la gran parte dei tributi comunali che i cittadini versano all’amministrazione. E’ una truffa? No è quello che consente un’altra “legge federalista”, la 446/97 (anche qui voluta da Bassanini) che da via libera ai Comuni nell’affidare la riscossione dei propri tributi a società private o miste con soci iscritti ad un albo apposito.
Le richieste di chiarimento del Ministero delle Finanze al Comune di Aprilia oltre a subire gli strali della”politica”( Di Pietro ha difeso quelli di Aprilia come bravi amministratori “messi in cattiva luce” dal Ministero) restano senza risposte .
Il caso di Aprilia non è affatto un caso isolato ma è piuttosto un episodio venuto alla luce di quello che l’inserto enti locali del Sole 24 Ore chiama un “far west” e che ha come posta in gioco un business di ben 80.000 miliardi di tributi comunali. “Un mondo senza regole dove vige la legge del più forte: ecco come si presenta oggi il mercato delle entrate locali, la cui riscossione fa gola a tutti”.
Un Far west su cui dal gennaio 2001, grazie al federalismo amministrativo voluto dal governo di centro-sinistra e votato consociativamente da destra e sinistra in Parlamento, il Ministero delle Finanze non potrà più mettere il naso !!!
Dunque oltre i manager della sanità e i consulenti strapagati, il federalismo ci regala anche esattori strapagati, novelli gabellieri che, come riporta una inchiesta del quotidiano romano “Il Messaggero”, non vanno tanto per il sottile nella riscossione dei tributi comunali visto che sono motivati dal “loro aggio” cioè da un interesse privato assai congruo. E’ uno scenario da Sceriffo di Nottigham al quale però, purtroppo, ancora manca Robin Hood.
La cooptazione degli apparati dirigenti
La nuova mappa dei poteri federali, non ha coinvolto solo gli amministratori ed il ceto politico ma ha dovuto cooptare anche l’apparato degli enti locali. Trattasi dei dirigenti, degli alti funzionari, dei segretari/direttori generali, di coloro che conoscono la macchina amministrativa fin dentro l’ultimo suo ingranaggio e che in alcune occasioni hanno tenuto in scacco i nuovi arrivati (sindaci, presidenti, assessori). Con il federalismo è diventato possibile cooptarli, pagarli profumatamente, farli partecipare al grande gioco….e soddisfarne le ambizioni. Anche in questo si sono rivelati fondamentali il ministro Bassanini e le sue riforme.
Come abbiamo visto in precedenza, secondo alcune sezioni locali della Corte dei Conti denunciano che le spese per i “consulenti esterni”spesso assorbono buona parte dei bilanci degli enti locali. Un recente studio della stessa Corte dei Conti, rileva come in media il 34% dei bilanci se ne vada per pagare il personale. Alcuni corifei dell’anti-statalismo approfittano di questi dati per rinnovare i loro attacchi contro “l’elevato numero di dipendenti nelle amministrazioni locali” ma una indagine che vada appena un pò in profondità rivela una realtà ben diversa.
Innanzitutto le recenti leggi finanziarie hanno imposto la riduzione sistematica – anno per anno – dei dipendenti che sono già diminuiti di 15.000 unità dal 1997 ad oggi. Gli unici ad andare in controtendenza sono stati i dirigenti, passati da 6.658 a 6.808 solo nelle Province, nei Comuni e nelle Comunità montane mentre nelle Regioni i dirigenti sono saliti a 3.891 unità su un totale di 42.669 dipendenti.
Infatti è proprio nelle Regioni che il rapporto tra numero di dirigenti e numero di lavoratori “comuni mortali” è assai più elevato che in Comuni e Province. Se nei Comuni il rapporto è inferiore all’1%, nelle Regioni sale ad una media del 9,1%. Le conseguenze sul “costo del lavoro” si fanno sentire notevolmente perchè i dirigenti delle Regioni guadagnano da un minimo di 96 milioni all’anno (Abruzzo, dati del 1998) ad un picco di 133 e mezzo (Veneto). L’incremento “salariale” per i dirigenti tra il ‘94 e il ‘98 è stato del 42,6%, quello per i lavoratori del 15,8%, tenendo conto che la media tra i lavoratori deve darsi tra il II° e l’VIII° livello, si può ricavare facilmente la divaricazione tra i redditi di un dirigente e quelli di un funzionario, di un impiegato o di un usciere ovvero tra i “medi” della nuova fascia B e i “reietti” della nuova fascia A. Occorrerebbe aggiungere a questi ultimi i “reiettissimi” rappresentati dai lavoratori socialmente utili o i lavoratori interinali a cui stanno ricorrendo sistematicamente le amministrazioni locali sia di centro-destra che di centro-sinistra.
Nelle regioni a statuto ordinario, nel 1994 c’era un dirigente ogni undici dipendenti, nel 1998 c’è uno ogni nove. Infatti un rapporto della Conferenza delle Regioni del 1998, denunciava un “aumento del costo complessivo del lavoro e situazioni molto differenziate tra Regione e Regione”. Ma segnalava anche che “la retribuzione media annua dei dirigenti regionali è passata dai 76 milioni del ‘94 agli attuali 108 milioni del 1998”.
Le Regioni con più dirigenti | Le Regioni con meno dirigenti |
Regione | % sui dipendenti | Regione | % sui dipendenti |
Molise | 13,33 | Calabria | 3,25 |
Umbria | 11,86 | Marche | 5,85 |
Toscana | 11,20 | Lazio | 6,16 |
Piemonte | 10,89 | Lombardia | 6,95 |
Media delle regioni a statuto ordinario: 9,12%
(Fonte: Conferenza dei Presidenti delle Regioni)
Nei Comuni la percentuale media è di 1 dirigente ogni 100 lavoratori mentre nelle Province si sale ad 1 ogni 40 lavoratori .
Il boom della dirigenza, così come quello dei consulenti e degli esattori, è una conseguenza diretta delle leggi federaliste di questi dieci anni.
Oggi una “determinazione dirigenziale” conta quanto e più di una delibera. Con la privatizzazione del rapporto di lavoro anche nel pubblico impiego, i poteri dei dirigenti sul personale sono estesissimi e discrezionali. E’ potere dall’alto contro il basso del quale i dirigenti rispondono solamente ed individualmente al sindaco o ai presidenti di province e regioni.
Dunque nella nuova classe dirigente federalista, si devono iscrivere anche questi quasi undicimila pretoriani delle amministrazioni locali, i cui interessi sono inversamente proporzionali a quelli dei lavoratori pubblici a loro sottoposti e degli utenti dei servizi da loro gestiti, perchè ai dirigenti viene aumentato il bonus individuale sulla base dei risparmi di gestione del budget a loro assegnato. Meno spenderà il loro dipartimento (in retribuzioni del personale o spese di gestione) e più porteranno a casa a fine anno. Nascono così quei surplus di reddito che viene investito in azioni, in titoli di stato o in fondi di investimento che i commentatori chiamano “risparmio gestito delle famiglie” e che è più corretto definire come ricchezza sociale rubata ai lavoratori e agli utenti dei servizi.
Composizione di classe e costi del nuovo ceto politico
Ogni nuova classe dirigente ha occupato sistematicamente i posti di comando e quelli di prestigio. Il ceto politico post-Tangentopoli non fa eccezione. Fa solo una differenza: oggi si fa pagare di più e direttamente in busta paga per smarcarsi dal vecchio ceto politico che invece ricorreva “ad altri mezzi”.
Come si è visto in precedenza, la modernizzazione della “politica” e l’assalto al potere della nuova classe dirigente, è avvenuta prima a livello locale e poi a livello centrale.
Sindaci, presidenti, assessori, consiglieri, si sono dotati di risorse finanziarie adeguate per apparire “incorruttibili” ed efficienti. Ma la realtà ci dice che oggi assai più che ieri, la rappresentanza politica si è via via concentrata su élite sociali sempre più ristrette e su una partecipazione elettorale che somiglia sempre meno al suffragio universale e sempre più al voto censuario .
Quali settori sociali compongono il Parlamento
Camera | Senato | |||||
1994 | 1996 | 1994 | 1996 | |||
Imprenditori Managers |
8,4 3,3 |
8,1 3,3 |
Imprenditori Managers |
10,5 2,9 |
5,7 2,5 |
|
Professionisti | 26,9 | 22,6 | Professionisti | 25,2 | 27,7 | |
Dirigenti pubblici | 4,9 | 6,0 | Dirigenti pubblici | 9,9 | 11,4 | |
Docenti Uiversitari | 8,6 | 9,7 | Docenti universitari | 17,2 | 18,1 | |
Insegnanti Operai Dip.pubblici |
10,5 1,6 5,4 |
9,4 2,1 7,8 |
Insegnanti Operai Dip. pubblici |
10,5 1,1 4,1 |
9,8 1,3 8,6 |
(Fonte: elaborazione del Circop, Università di Siena)
La composizione sociale del Parlamento, quello che, tra le altre cose, ha varato la riforma federalista dello Stato, vede dunque rappresentata una stragrande maggioranza di settori sociali ricchi, con redditi elevati e con interessi materiali confliggenti con quelli dei lavoratori salariati, dei disoccupati/precari o dei pensionati.
Il deputato semplice, il peone che alza la mano su indicazione del suo capogruppo, si porta a casa da un minimo di 16 milioni ad un massimo di 24 milioni al mese (per via delle diarie, dei rimborsi viaggio e delle spese di rappresentanza). I deputati che invece hanno incarichi (vice-presidente della Camera, questore, presidente di Commissione) aggiungono a questi altre indennità che vanno da un massimo di 8.813.713 ad un minimo di 5.675.761 lire mensili.
La segnalazione di queste cifre e la loro connessione con la composizione sociale del Parlamento, non è un cedimento a tentazioni qualunquiste ma è una fotografia che serve per comprendere il contesto in cui vengono discusse, prese, votate o semplicemente ratificate decisioni importanti.
Il costo degli amministratori locali
COMUNI | Inden. mensile sindaci (lorda) | Gettoni presenza consiglieri |
fino a 1.000 abitanti | 2.500.000 | 33.000 |
da 10.000 a 30.000 | 6.000.000 | 43.000 |
da 50.000 a 100.000 | 8.000.000 | 70.000 |
da 250 a 500.000 | 11.200.000 | 115.000 |
oltre i 500.000 | 15.100.000 | 200.000 |
PROVINCE | Ind.mensile presidenti (lorda) | Gettoni presenza consiglieri |
fino a 250.000 abitanti | 8.000.000 | 70.000 |
da 500 a 1.000.000 | 11.200.000 | 150.000 |
oltre 1.000.000 | 13.500.000 | 200.000 |
Occorre sottolineare che i gettoni di presenza dei consiglieri non vengono elargiti solo in occasione delle sedute dei consigli comunali o provinciali, ma anche per le riunioni delle commissioni di cui ogni consigliere fa parte. Per cui è chiaro che se l’amministratore di un piccolo comune non può “campare” con la retribuzione istituzionale della sua attività, gli amministratori e i consiglieri dei grandi centri urbani cominciano a percepire redditi assai superiori a quelli di un lavoratore dipendente.
I “governatori delle regioni” e le loro corti
(indennità mensile lorda)
Regione | Presidente | Membro Giunta | Consigliere |
Diaria mensile consiglieri |
Campania | 17.384.155 | 15.452.582 | 12.555.223 | 4.617.671(max) |
Emilia-Romagna | 19.315.728 | 16.901.262 | 12.555.223 | 4.884.304(max) |
Lazio | 19.315.728 | 16.418.369 | 12.555.223 | 3.575.715 |
Lombardia | 19.315.728 | 16.418.369 | 12.555.223 | 3.575.715 |
Sicilia | 32.243.838 | 27.895.838 | 19.201.838 | 5.501.100 |
Veneto | 19.315.728 | 16.418.369 | 12.555.223 | 3.575.715 |
Come si può verificare attraverso i precedenti dati, il nuovo ceto politico è ancora numeroso ed è sicuramente ricco. Ha comunque a disposizione risorse finanziarie che gli consentono di comprare azioni delle aziende privatizzate, di “guardare al mercato” senza l’insicurezza che domina gran parte dei settori popolari o di non vedere come problema il semplice aumento di ventimila lire mensili del servizio di refezione scolastica o l’introduzione delle addizionali Irpef per regioni, comuni e province.
Il ceto politico ha un atteggiamento morale e materiale assai diverso da quello dei lavoratori dipendenti o dei pensionati, ai quali magari viene riconosciuto un aumento contrattuale di 35.000 lire medie e lorde che viene immediatamente azzerato dal ritocco di qualche tariffa dei servizi pubblici locali (dalla nettezza urbana alla refezione etc.) o nazionali (gas, elettricità, canone Telecom etc.).
Questa incomunicabilità tra ceto politico nazionale e locale e settori sociali, negli anni ‘90 è diventata ancora più profonda. Il sistema maggioritario e il bipolarismo hanno infatti rotto anche quel meccanismo distorto di rapporto tra politica e società che era il voto di scambio. Il problema è che l’hanno sostituito con l’arroganza, l’inamovibilità e la divaricazione tra ceto politico e società.
La componente politica della nuova classe dirigente è dunque “nemica del popolo” ma non è la sola e neanche la peggiore.
I managers del federalismo
Infine, ma non certo per importanza, si arriva ai peggiori di tutti: i managers e gli amministratori delle aziende locali privatizzate o delle nuove aziende del “non profit”.
Costoro, a differenza dei segmenti indicati antecedentemente, non vengono più nominati dagli amministratori ma dagli azionisti di riferimento (incluse, lì dove sopravvivono quote azionarie, le amministrazioni locali che hanno privatizzato le aziende) o dai donatori delle aziende “non profit”.
Ma per inquadrare questi protagonisti emergenti della “nuova classe dirigente federalista”, occorre avere una idea della posta in gioco.
Il business dei servizi locali
Servizi erogati |
Numero di aziende |
Utenti (mln) |
Costi (mld) |
Fatturato (mld) |
Dipendenti |
Igiene urbana | 155 | 25 | 4.070 | 4.100 | 34.000 |
Acquedotti | 241 | 42 | 3.720 | 4.100 | 18.500 |
Gas | 116 | 15 | 6.050 | 6.400 | 10.500 |
Elettricità | 106 | 6 | 2.600 | 3.000 | 9.500 |
Trasporti | 130 | 48 | 9.100 | 7.900 | 87.000 |
TOTALE | 748 | — | 25.540 | 25.500 | 159.500 |
(Fonte : elaborazione Sole 24 Ore su dati Confservizi-Cispel)
La tabella precedente non fornisce i dati sui profitti ma si possono segnalarne alcuni per averne una idea. Nel 1998, la AEM di Milano ha avuto profitti per 348 miliardi, l’ACEA di Roma per 290, la AEM di Torino per 83 e poi, AMGA di Verona per 69, AGAC di Reggio Emilia per 55 miliardi etc. AEM e ACEA compaiono ormai tra i primi quaranta gruppi industriali italiani (6)
Queste aziende si sono lanciate come corsari nella guerra all’acquisizione di altre aziende in vari settori (inclusa l’UMTS) conformandosi sempre più come “holding multiutilities” con interessi estesi in Italia e all’estero. Il loro vantaggio è la posizione di monopolio che deriva dalle concessioni pubbliche sui servizi locali che gli offre una massa critica di partenza e la possibilità di scaricare sulle tariffe dei servizi gli eventuali “insuccessi” delle loro scorrerie.
In breve tempo, queste aziende locali privatizzate sono diventate regine delle Borse e riferimento delle acquisizioni azionarie della nuova classe dirigente. Prima di Tangentopoli la nomina dei presidenti delle aziende municipalizzate era oggetto di contenzioso e compromesso tra i partiti che gestivano le giunte locali. Oggi il rapporto tra la politica e questi managers è semmai ancora più diretto ma trasversale all’Ulivo e al Polo. In parte ciò ha costruito dei margini di indipendenza tra il business e la politica ma in realtà ha integrato ancora di più che in passato la seconda con il primo. E’ il sistema della lobbies che caratterizza il modello americano.
“Potente, aggressiva e soprattutto trasversale. E’ la lobby delle ex-municipalizzate. Una rete di intrecci e alleanze tra imperi economici comunali che sta avvolgendo l’Italia e calamitando sempre più su di se affari e denari” .
“Settori come quelli dell’energia elettrica e del gas, del teleriscaldamento, del trattamento dei rifiuti costituiscono da qualche anno business assai appetibili, anche perchè tutti caratterizzati da elevato potere di mercato (se non, ancora, da monopolio legale) .
Questi commenti non sono nostri ma degli inserti economici dei due maggiori quotidiani italiani, non imputabili quindi a simpatie anticapitaliste o antifederaliste. Essi fotografano una realtà che il federalismo liberista sembra intenzionato a peggiorare ulteriormente nei prossimi anni anche in settori come quelli dell’acqua e dei rifiuti (7).
La possibilità di poter ormai intervenire liberamente sulle tariffe, assicura infatti agli investitori un business e profitti pressochè sicuri.
Le tariffe dell’acqua, secondo la Federconsumatori, sono già aumentate del 26,5% negli ultimi cinque anni. Notizie diffuse quasi anonimamente a luglio parlano di aumenti prevedibili delle tariffe dell’acqua del 100%. Tutto lascia prevedere che la concentrazione dei gestori prevista e legittimata dalla Legge Galli e dalla liberalizzazione imposta da Bruxelles, spianeranno la strada all’assalto dei monopoli italiani (ENEL, ACEA etc.) e stranieri (Vivendi e General des Eau soprattutto) e ad un pesante aumento delle tariffe.
Il giro d’affari sull’acqua rasenta i 100.000 miliardi di lire e le grandi manovre – vedi l’Acquedotto Pugliese, l’Acquedotto De Ferrari a Genova, gli acquedeotti di Arezzo, Latina, Forsinone e della Calabria – sono già cominciate.
Anche la nettezza urbana è destinata a diventare preda di questi corsari della finanza e dei servizi locali. Il passaggio da tassa a tariffa consegnerà presto il servizio nelle mani dei privati che potranno contare su un aumento delle tariffe che potrebbe raggiungere anche il 200%. In questo scenario appare difficile sperare, come cantava De André, che dal letame possano nascere fiori.
La sussidiarietà: una clava contro il carattere sociale dei servizi
Questi nuovi protagonisti dell’assalto ai servizi pubblici, hanno impugnato come una clava la parola magica agitata dagli apprendisti stregoni del federalismo liberista: la sussidiarietà.
I servizi pubblici, secondo questa interpretazione, devono essere gestiti dai soggetti privati perchè altrimenti rappresenterebbero un carico per le comunità locali che solo la privatizzazione potrebbe risolvere in termini di efficenza ed economicità.
Tale processo di trasformazione dello Stato e di smantellamento del welfare state si è dotato di un apparato culturale ed ideologico che ne legittima e nobilita l’opera: è il modello fondato sul terzo settore o no profit sul quale si sono dislocate forze, risorse economiche e finanziarie ma anche forti apparati ideologici che sono penetrati a fondo nella cultura della «sinistra».
Sulla valorizzazione e crescita del non profit, si è schierato un fronte amplissimo con progetti ed interessi diversi e complessi che va dalla Confindustria ai settori cattolici, dalla sinistra istituzionale ai centri sociali, dalle fondazioni bancarie ad intellettuali «antagonisti».
Di fatto lo sviluppo del Terzo settore è diventato pienamente organico ai piani di ristrutturazione del mercato del lavoro (precarizzazione e flessibilità del lavoro e del salario) e dello smantellamento dello Stato sociale (privatizzazioni e riduzione a quota minimo dei servizi e dei settori coperti).
Per comprendere tale processo, sarebbe sufficiente mettere uno dietro l’altro i seguenti fattori:
a) l’impiego di personale volontario e motivato o di personale sottopagato e ricattato;
b) la privatizzazione dei servizi sociali con gare d’appalto al massimo ribasso dei costi;
c) la capacità di gestione dei servizi flessibile e diffusa nel territorio;
d) la riduzione della disoccupazione con crescita del lavoro «atipico».
La priorità tra universalità del servizio pubblico e interesse privato viene così invertita favorendo il secondo e sancendo contestualmente il disimpegno del soggetto pubblico (Stato o ente locale) dalle proprie responsabilità nel patto con i cittadini.
Questo assioma, diventato una sorta di vangelo, indica il nesso tra i managers e gli amministratori delle aziende locali privatizzate e i managers e gli amministratori delle società non profit, società esplose negli ultimi anni e che hanno avuto proprio nell’Emilia-Romagna il loro laboratorio ideologico e l’incubatoio pratico.
Tra business e volontariato: radiografia del non profit
Associazioni | 15.000 |
Cooperative | 5.000 |
Fondazioni | 2.000 |
Fodazioni bancarie | 88 |
Fatturato aggregato del no profit | 3.000 miliardi |
Totale lavoratori occupati | 690.000 |
Lavoratori remunerati | 100.000 |
Fatturato terzo settore % sul PIL | 2,7% |
Volontari | 5,5 milioni |
(fonte: Sole 24 Ore del 25.9.2000)
A chi giova allora il non profit? Sicuramente ai dirigenti degli enti tramite tutta la tradizionale serie di vantaggi e benefit personali con tanto di evasione fiscale. In secondo luogo alle banche e al sistema creditizio che trovano così ottimi clienti nei singoli enti, essendo questi strutturalmente sofferenti di «bassa capitalizzazione» e costretti a far fronte a consistenti oneri finanziari.
Dunque, tra consiglieri di amministrazioni delle cooperative, delle fondazioni e delle associazioni, si è sviluppato un piccolo esercito di almeno 40.000 managers della buona fede, alcuni di nome, altri di fatto. E’ un esercito destinato a crescere – stando a tutte le proiezioni- ma anche a ridurre a infima minoranza coloro che danno al non profit una dimensione fortemente etica.
La trasformazione di questi amministratori del Terzo settore in veri e propri gestori di quote crescenti di ricchezza sociale sta nei fatti.
Da un lato il dogma della sussidiarietà affiderà sempre più a costoro la gestione dei servizi sociali “esternalizzati” dalle amministrazioni locali, dall’altro -essendo un settore in sviluppo recettivo di quote crescenti di finanziamenti pubblici e privati in linea con il modello amerikano- sul terzo settore si stanno attrezzando i panzer delle fondazioni bancarie e delle fondazioni private (che spesso veicolano e riciclano soldi in funzione di trattamenti fiscali più favorevoli).
La Fondazione Cariplo (la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde), con un patrimonio di 14.000 miliardi è già oggi è all’ottavo posto nel mondo tra le società operanti nel non profit dopo sei società americane ed una inglese (precede addirittura fondazioni storiche come la Rockfeller e la Kellog) .
I corsari delle fondazioni bancarie e private, lamentano l’eccessiva dipendenza delle società non profit dal settore pubblico e invocano mano libera e stretta connessione al mondo delle imprese “profit” vere e proprie.
I profitti delle maggiori Fondazioni
(in miliardi di lire)
Cariplo: 661 | MPS: 532 | S.Paolo: 480 | Cariverona: 378 |
Gli attivi delle Fondazioni bancarie
(in miliardi di lire)
1996/97: | 51.890 | 1997/98: | 53.428 | 1998/99: | 59.700 |
Dove investono le Fondazioni nel settore «non profit»
Cultura | 34,6% | Assistenza | 13,4% |
Volontariato | 12,1% | Istruzione | 12,4% |
Sanità | 9,1% | Ricerca | 7,8% |
Altro | 10,4% |
(Fonte: Sole 24 Ore del 24 agosto 2001)
Il deus ex machina del Terzo settore in Italia, Stefano Zamagni, cattolico “prodiano” e docente all’Università di Bologna, afferma testualmente che si sta delineando una “via italiana al non profit” adeguato al contesto del nostro paese “dominato dalla presenza delle piccole e medie imprese. Non è affatto casuale” aggiunge Zamagni “che in Italia si registri una stretta correlazione tra PMI e iniziative non profit”.
Tra l’invasività delle fondazioni e il “dominio” delle piccole e medie imprese, il problema del Terzo settore sarà sempre più quello di rendere conto sempre più ai “donatori” e sempre meno agli utenti.
E’ il meccanismo micidiale che ha snaturato e cooptato ad esempio la stragrande maggioranza delle ONG attive nella cooperazione internazionale (oggi in Italia ne esistono ben 130 riconosciute dalla Farnesina) fino a renderle in buona parte strumento della politica di smobilitazione nelle aree di conflitto sociale dei paesi in via di sviluppo o strumento di aperta collaborazione con la politica di “ingerenza umanitaria” delle maggiori potenze e dei rispettivi Stati Maggiori o servizi segreti (vedi l’Operazione “Arcobaleno” in Kossovo o il ruolo delle statunitensi “Care”e “IRC” nell’enclave kurda in Iraq).
Su questo uno studioso rigoroso e autorevole come James Petras ha scritto osservazioni che andrebbero pubblicizzate e discusse seriamente (18).
La sussidiarietà si rivela così un espediente strettamente connesso al modello liberista e dunque al Profit State. Lo «Stato/comitato d’affari» con la riduzione delle spese sociali e del salario sociale globale, ha la possibilità di convogliare sempre più risorse per le imprese e per i processi di ristrutturazione produttiva e di allargare un mercato diffuso dell’intervento sociale.
Questa logica è stata imposta dall’alto con il processo di unificazione economica e politica europea ed ha trovato un corrispondente diretto nella richiesta di federalismo degli enti locali. In questo, la devolution di Formigoni e Bossi o il documento “Il federalismo preso sul serio” dell’assessore regionale emiliano Mariucci (DS), sono perfettamente compatibili fra loro.
Paradossalmente, ma non troppo, le amministrazioni locali hanno largamente anticipato lo Stato centrale nella realizzazione di questo processo. Solo il “furore federalista” del ministro Bassanini ed i governi dell’Ulivo hanno infine creato la cornice costistituzionale per portare fino in fondo l’operazione della riforma federale dello Stato.
Questa nuova classe dirigente è il frutto avvelenato della modernizzazione capitalistica ed europeistica dell’Italia che porta forte l’impronta e il segno della sinistra di governo, su questo c’è un fortissimo nesso tra il Craxi degli ‘80 e il D’Alema negli anni ‘90.
Tra i “rampanti craxiani” e i “rampanti” ulivisti la sola differenza consiste nel fatto che i secondi hanno scalzato i primi con una operazione politica, culturale ed istituzionale che ha potuto contare su maggiore controllo e consenso sociale.
Il quadro emerso in questi mesi porterebbe a dire che non dobbiamo temere solo i vari Mr.H(a)yde(r) prodotti dalla destra in questa Europa ma anche i numerosi dott. Jekill prosperati con i governi di centro-sinistra a livello locale e centrale. Le loro ricette hanno un ingrediente comune: spianano la strada ad uno Stato «coercitivo», fattore questo fondamentale per lo Stato «competitivo».
NOTE:
(1) Su questo vedi “Le trappole del federalismo” su Proteo nr.3 del 1999 e «Il federalismo dei nuovi boiardi» in Proteo nr.4 del 2000
(2) Una sintesi del rapporto CNEL è uscita sul Sole 24 Ore del 7 dicembre 2000
(3) Indicativo di questa introiezione del modello tedesco è il libro “Germanizzazione. Come cambierà l’Italia” di Federico Rampini, Laterza 1996 ma anche il libro dell’assessore della Regione Emilia-Romagna Mariucci con prefazione di Bersani “Il Federalismo preso sul serio. Una proposta per l’Italia”.
(4) Introduzione al «13° Rapporto sullo stato dei poteri e dei servizi locali» 1999, a cura della Sudgest.
(5) CNEL: Laboratori Territoriali. Rapporto sulla concertazione locale,1999
(6) “Le cinquemila società leader” classifica curata da Morgan Stanley Capital pubblicata come inserto speciale da Milano/Finanza, novembre 1999
(7) “Piccoli boiardi. Nuovi e federalisti”in CorrierEconomia del 23 ottobre 2000 e “Il Comune imprenditore nemico della concorrenza” in Affari e Finanza del 20 novembre 2000.
(8) “Le ambiguità del ruolo delle ONG in America Latina” in”Resumen Latinoamericano” dell’aprile 1999. Tradotto e pubblicato in Italia da Contropiano, giugno 1999.
V
Lo «Stato coercitivo»
In quest’ultimo decennio, in Italia si è prodotta una mutazione enorme sul piano qualitativo e strategico. L’integrazione europea ha ridisegnato completamente l’apparato statale e decisionale ed ha ristrutturato in profondità la relazione tra economia, società e Stato. Questo passaggio è stato utilizzato come un arnese da scasso per piegare gli interessi materiali del Lavoro rispetto a quelli del Capitale (che è indubbiamente quello che ha determinato ed egemonizza il processo di costituzione del polo geoconomico europeo) ma anche per scardinare le precedenti strutture statali ed istituzionali ed adeguarle alla dimensione sovranazionale dell’Unione Europea e conformarle alle conseguenti esigenze dello Stato competitivo.
In primo luogo vi è stato un trasferimento sostanziale di decisionalità alle istanze superiori di Bruxelles di leve fondamentali come la moneta e le politiche di bilancio. I Trattati di Maastricht, di Amsterdam e il “Patto di stabilità” decretato nel vertice di Dublino, hanno incardinato le decisioni degli esecutivi italiani ed europei ai criteri di convergenza stabiliti dai custodi dell’Unione Europea.
In secondo luogo il potere decisionale dei Commissari e delle Commissioni di Bruxelles si abbatte ormai sistematicamente su ogni decisione “nazionale” che si discosti dai criteri fatti propri dai nuovi centri di poteri europei. Il Commissario Mario Monti oggi è propabilmente più potente del primo ministro di ogni singolo paese aderente. La sua tutela sulle regole della concorrenza sul mercato interno (ovvero l’intera Unione Europea) costringono i governi ad adeguarsi ai diktat che giungono da Bruxelles e che impongono di smantellare ogni ostacolo giuridico, sindacale, ambientale alla “mano invisibile del mercato”.
La liquidazione del vecchio sistema e del ceto politico tramite l’operazione Tangentopoli, l’introduzione del sistema elettorale maggioritario e del bipolarismo (con la santificazione sistematica della logica bipartizan), le modifiche costituzionali sempre più profonde (il federalismo è stato su questo un «vaso di Pandora»), hanno via via normalizzato l’anomalia italiana ed adeguato il «sistema Italia» ai criteri di efficacia, controllo e liberismo economico richiesti dal processo di unificazione europea.
Se pensiamo che tra il 60 e il 70% (con punte dell’80% in Germania) delle attività dei parlamenti nazionali sia ormai occupato dalla ratifica delle famigerate “direttive europee”, abbiamo la dimensione della perdita di sovranità sulle decisioni intervenuta negli anni ‘90 con la piena integrazione dell’Italia nell’Unione Europea e un’idea concreta della concentrazione di poteri negli esecutivi europei, nazionali e locali.
Un deficit democratico come peccato originale
Il processo di unificazione europea è avvenuto e si regge tuttora su un pesantissimo deficit democratico. Solo alcuni paesi (Danimarca, Irlanda, Norvegia, Francia) hanno tenuto dei regolari referendum sui vincoli che i vari trattati impongono ai paesi membri. Ed è curioso registrare che lì dove si sono tenuti questi referendum l’opzione europeista abbia sistematicamente perso (paesi scandinavi e Irlanda) o abbia vinto di strettissima misura (Francia).
Al centro di tali iniziative, molte forze politiche e sociali progressiste di questi paesi, oltre ai costi sociali dell’integrazione europea hanno posto il problema della perdita della sovranità nazionale. L’accentramento dei poteri decisionali nella Commissione di Bruxelles (che nessuno ha eletto e che nessuno elegge) rappresenta uno svuotamento effettivo di molti poteri dei singoli governi nazionali rispetto alle istituzioni europee.
Il dibattito apertosi con il vertice europeo di Nizza sul carattere che dovrà assumere l’Unione Europeo – ovvero una sorta di federazione oppure una unione di stati sovrani – è destinato a subire una accelerazione notevole perchè la definizione della catena di comando a livello di polo europeo – anche in previsione dell’allargamento a Est dell’UE – appare ormai ineludibile.
Non è ancora chiaro cosa farà Berlusconi, ma l’Italia dei Prodi, dei Ciampi e degli Amato ha propeso piuttosto apertamente per una federazione di stati, con una costituzione comune ed un meccanismo elettivo (in sostanza è la posizione tedesca). Del resto appare evidente – come documentano L’Istituto di Ricerche Economiche di Vienna (WIFO) o le già segnalate elaborazioni di Guglielmo Carchedi – come con l’estensione dell’Unione Europea ai paesi dell’Est sia soprattutto la Germania a trarre vantaggio del sistema decisionale previsto dal Trattato di Nizza.
Ma commetterebbero un serissimo errore coloro che confondessero questo processo con il superamento del ruolo dello Stato. Piuttosto ne assistiamo ad una trasformazione e ad un rafforzamento qualitativo sia sul piano della dimensione sovranazionale (il polo europeo o la “Superpotenza Europa” come invocato in più occasioni da Romano Prodi) sia nella gestione degli “affari interni”.
Infatti una volta che le leve principali delle decisioni economiche e monetarie sono state consegnate alle istituzioni di Bruxelles e Francoforte e che la presenza statale nell’economia è stata smantellata con le privatizzazioni che hanno costellato l’ultimo decennio, resta solo il problema della gestione e della armonizzazione tra le scelte strategiche europee e la situazione nazionale.
In questo senso la riforma federalista rappresenta un significativo passo in avanti nel processo di centralizzazione delle decisione strategiche demandate a Bruxelles e della decentralizzazione delle decisioni periferiche demandate alle regioni (secondo il modello tedesco dei Laender). Per gestire tale processo è inevitabile avere degli esecutivi nazionali molto centralizzati e con pieni poteri (1).
Una dinamica piuttosto inquietante di questa spartizione dei compiti tra la struttura di comando centrale (Bruxelles) e quelle nazionali (i governi) è quella relativa al controllo sociale che viene demandata ancora ai singoli apparati statali.
Crescono gli apparati coercitivi
Se osserviamo le dinamiche della spesa pubblica in Italia nell’ultimo decennio, vedremo che mentre sono stati tagliati pesantemente settori come sanità, istruzione, servizi etc, sono state aumentate o tagliate assai meno le spese destinate agli apparati coercitivi dello Stato: i ministeri degli Interni, della Difesa, della Giustizia e…delle Finanze. Si tratta degli apparati statali atti ad esercitare tutti i poteri monopolistici dello Stato: da quello della violenza (rivendicato apertamente dal ministro Pisanu dopo i fatti di Genova) a quello dell’esercizio della giustizia penale e civile, a quello della imposizione e riscossione delle tasse.
I funzionari dello Stato
Apparati statali | 1998 | 2000 |
Ministeri | 276.683 | 267.755 |
Aziende Autonome (VVFF) | 39.972 | 38.860 |
Scuola Apparati coercitivi dello Stato |
916.546 | 896.753 |
Corpi di Polizia | 301.433 | 313.377 |
Forze Armate | 116.768 | 116.721 |
Magistratura | 9.753 | 10.236 |
(fonte: Ragioneria Generale dello Stato)
I dati sopra riferiti, danno un’idea concreta e non pregiudiziale di una tendenza al rafforzamento degli apparati coercitivi dello Stato rispetto a quelli destinati ad una funzione sociale. E’ un passaggio ineludibile e funzionale in un processo di fortissima centralizzazione come quello avvenuto nel polo europeo e di rafforzamento del potere degli esecutivi.
In Italia poca polizia oppure troppa?
(numero di agenti di polizia e carabinieri ogni 10.000 abitanti)
Italia | 48,8 | Germania | 32,0 |
Spagna | 47,7 | Gran Bretagna | 31,8 |
Portogallo | 44,0 | Olanda | 25,6 |
Francia | 39,4 |
Fonte: EJCPR, 1999 in «Global» di Agosto 2000
Questo processo – in un sistema democratico – non è identificabile tout court con lo stato di polizia ma investe nel suo complesso le funzioni dello Stato. Se guardiamo alle nuove assunzioni o alle modiche di funzioni professionali di molti apparati pubblici (statali o locali) vedremo che in essi sono cresciute numericamente le figure che hanno funzioni di controllo e ispettive (ispettori, controllori, revisori) rispetto ad altre figure professionali.
All’insegna della lotta contro l’illegalità, l’evasione fiscale, le infrazioni stradali, le infrazioni alle normative comunali etc. è cresciuto sotto i nostri occhi un esercito di funzionari adibiti esclusivamente ad esercitare le funzioni coercitive di controllo degli apparati statali sulla società.
In secondo luogo, le campagne demagogiche sulla sicurezza, sulla tolleranza zero, sulla micro-criminalità, hanno spianato la strada all’aumento di fondi e assunzioni destinate quasi esclusivamente alle forze di polizia (2)
Infine, ma non per importanza, la decisione di dotare l’Italia di un esercito su base professionale e di integrarlo nell’Esercito Europeo, segnano un salto di qualità profondissimo e significativo nella riorganizzazione degli apparati coercitivi dello Stato, estendendo e funzionalizzando il loro ruolo alle proiezioni internazionali e alla competizione globale alle quali deve adeguarsi lo «Stato «competitivo»
NOTE:
(1) Su tale questione è molto utile il capitolo curato da Andrea Catone nel libro “L’Ostato”, che riassume le relazioni svolte in due convegni dedicati proprio alla questione dello
(2) Sulla “ossessione della sicurezza” sono estremamente interessanti gli articoli di Eric Klinenberg e Laurent Bonelli su “Le Monde Diplomatique” del febbraio 2001.
VI
L’Italietta ha «perduto l’innocenza»
Negli anni Novanta, l’Italia si è fortemente internazionalizzata ed inserita nella competizione globale. L’internazionalizzazione non è stata solo quella produttiva, ma è stata affiancata dagli apparati dello Stato ad ogni livello: dalla diplomazia ai bombardieri, dalla bassa imposizione fiscale verso il Traffico di Perfezionamento Passivo, alla promozione degli investimenti italiani.
L’Italia non è più “l’anello debole della catena ” nè il suo ruolo internazionale può essere più limitato – come in passato – a quello di “portaerei americana nel Mediterraneo”. E’ vero che tale percezione è ancora – nelle scelte del Pentagono e della Casa Bianca – fortemente radicato, tanto da appoggiare apertamente la campagna e la vittoria elettorale di Berlusconi.
L’Italia resta infatti l’unico paese europeo della NATO in cui le forze armate statunitensi presenti sul territorio non hanno subito riduzioni (come invece accaduto in Germania, Spagna, Gran Bretagna).
Non solo, la base militare di Aviano è stata allargata per consentire la sistemazione di altri militari americani e per rafforzarne la struttura logistica in funzione del suo ruolo strategico verso l’Est. Aviano infatti è stata la principale base militare NATO da cui sono partiti i bombardamenti sulla ex Jugoslavia.
Ma sarebbe un errore clamoroso quello di leggere ancora l’Italia come uno Stato eternamente subalterno alla politica statunitense nel fianco sud della NATO. L’Italia è ormai una media potenza – integrata nella NATO e nella UE – in cui interessi materiali (il capitale finanziario innanzitutto) spingono per la definizione di una propria area di influenza e di una ridefinizione dei propri “interessi strategici nazionali”.
Due anni fa l’Italia ha partecipato a pieno titolo nell’aggressione militare della NATO contro la Jugoslavia. Oggi ci sono oltre 10.000 soldati italiani, equipaggiati di tutto punto, dislocati nei paesi dei Balcani. Sono in Bosnia, in Kossovo, in Macedonia, in Albania, in Croazia inquadrati nelle varie missioni militari messe in piedi dalla NATO (KFOR, SFOR, IFOR).
L’Italia ha deciso di mettere in liquidazione l’esercito di leva e di dotarsi di un esercito professionale. Partecipa attivamente alla costituzione della Forza di Reazione Rapida messa inn piedi dall’Unione Europea con compiti esplicitamente interventisti ed offensivi.
Se si guarda indietro solo di pochi anni, prima l’intervento militare in Albania e poi la partecipazione attiva alla guerra contro la Jugoslavia, ci permettono di comprendere le connessioni con il disegno più complessivo di penetrazione ed egemonia economica e politica in un’area dei Balcani ritenuta ormai in ambienti della Farnesina “il nostro retroterra economico e strategico” (1).
Le forze economiche che determinano le scelte politiche dell’Italia sul piano internazionale, rivelano alla nostra società che dobbiamo ormai fare i conti con l’imperialismo italiano, con una economia finanziaria aggressiva verso altri paesi e con una politica tesa a ritagliarsi – in concertazione ma anche in competizione con altre potenze – una propria area di influenza nei Balcani e nel Mediterraneo. In questo senso la “questione balcanica” – più di altre – è rivelatrice dell’epoca in cui viviamo.
Lo schermo per le spedizioni militari neocoloniali sono – ancora una volta – gli interventi “umanitari”. Poche centinaia di tonnellate di medicine e generi alimentari vengono così “scortate” da migliaia di tonnellate di carri armati Leopard, blindati, soldati, elicotteri, caccia-bombardieri Tornado, navi militari che occupano i porti, gli aereporti e le strade della regione balcanica. Questo modello di ingerenza militare umanitaria è diventato ormai il modello di riferimento per tutte le operazioni neo-coloniali tese a «riportare la stabilità» in regioni o paesi di varie parti del mondo.
La questione “umanitaria” sta rivelando piuttosto chiaramente la sua ambiguità. Si assiste ad una pericolosa oscillazione tra un “pietismo” verso i profughi molto spesso strumentale (dalle lacrime dei “politici” al business delle organizzazioni di assistenza umanitaria) ed un incentivo alla xenofobia di massa verso gli stranieri istigato dall’allarmismo dei mass media e dai provvedimenti sull’immigrazione clandestina.
Questi due punti di vista – speculari tra loro – rischiano da un lato di legittimare “ l’ingerenza militare umanitaria” negli altri paesi – negando così ogni soluzione delle crisi fondata sull’autodeterminazione popolare e sulla sovranità nazionale – e dall’altro alimentano lo sciovinismo, il razzismo e il militarismo nell’opinione pubblica italiana spianando il terreno a politiche ancora più reazionarie e pericolose.
Le aree di influenza delle ambizioni italiane
Con le politiche d’urto degli anni ’90 e la finanziarizzazione dell’economia, il mercato interno è diventato via via meno importante rispetto a quello internazionale. Come potremmo spiegare altrimenti la stagnazione della domanda interna che dura ormai da nove anni con il proseguimento di politiche restrittive ? Diciamo allora che l’economia italiana – una economia imperialista – si sente ormai sicura di realizzare una valorizzazione del capitale allargando il mercato e costruendosi una area di influenza.
L’Europa dell’Est e il Mediterraneo Sud, in questo nuovo quadro, hanno assunto un ruolo particolare. Sorvolando sulle conseguenze politiche, strategiche, militari, ideologiche di questo cambiamento che meritano una riflessione specifica (basta pensare alla guerra nei Balcani) , ci interessa mettere in evidenza i riflessi sulla situazione economico-sociale dell’Italia innescati dalle relazioni con queste aree del mondo.
E’ noto a tutti che uno dei soggetti economici più attivi a livello internazionale è l’ENI. Molto spesso questa multinazionale prima pubblica e poi privatizzata, ha aperto la strada alla politica estera italiana (la stessa strada viene oggi seguita dalla Telecom privatizzata). Oggi sul mercato petrolifero è in corso una guerra senza esclusione di colpi. Lo stesso avviene nella conquista e spartizione delle concessioni per le telecomunicazioni.
Per portare a casa margini di profitto occorre partecipare a questa guerra e l’Italia non intende affatto rimanerne fuori. La partecipazione all’aggressione contro la Jugoslavia in questo ha una sua logica.
I terminali petroliferi che dovranno gestire i flussi che arrivano dall’area del Mar Caspio, devono necessariamente connettersi ai mercati ricchi dell’Europa.A loro volta, dal “cuore” sviluppato dell’Europa dovranno veicolare i flussi di investimenti destinati ai “nuovi mercati dell’Est” oggi ancora poco sfruttati.
I Balcani sono decisivi per il passaggio di questi corridoi. Ne vengono attraversati da Nord a Sud e da Est a Ovest, convergendo guarda caso, soprattutto in Germania (ovvero nel cuore del polo geoeconomico europeo) e nei porti balcanici dell’Adriatico dunque affidando all’Italia un ruolo strategico non certo secondario (2).
Questo ruolo dell’Italia si evince dalla attivissima Ost-Politik lanciata dal governo Prodi. Piero Fassino che in quell’esecutivo era Viceministro degli Esteri su questo ha detto cose illuminanti : “Troppi nel nostro paese – soprattutto nella classe politica – sottovalutano che l’Europa centrale e sud-orientale è per l’Italia un’area strategica di interesse vitale….Sono queste le ragioni per cui il governo Prodi ha individuato nell’Europa centrale e orientale e nei Balcani una priorità fondamentale della politica estera italiana, sviluppando una vera e propria “Ost-Politik” italiana che non solo corrisponde agli interessi del nostro paese, ma consente all’Italia di svolgere un’essenziale e riconosciuta funzione nella costruzione della nuova Europa….Il forte radicamento della nostra Ostpolitik nell’Europa centrale e sud-orientale si proietta poi in una dimensione ancora più ampia verso la Russia, l’Ucraina e la Moldavia, verso l’area caucasica fino a giungere ai paesi dell’Asia centrale” .
I Balcani , rappresentano per l’Italia la prima vera proiezione internazionale dopo il 1989 nel tentativo di costruirsi una propria area di influenza sia concertando gli spazi lasciati scoperti dalle altre potenze sia in competizione con altre potenze.
Dentro la crisi che investe tuttora l’area balcanica (Macedonia, Albania, Bulgaria, Romania, Serbia) la borghesia italiana ed i suoi esperti strategici vedono l’occasione per consolidare la propria presenza economica, politica e, perchè no, militare. La esigenza di stabilità politica, gli investimenti economici, l’integrazione militare che verrebbe dall’Est dell’Europa, secondo alcuni di questi novelli apologeti della “quarta sponda”, dovrebbe essere raccolto dall’Italia.
“Dopo la fine della guerra fredda si è aperto uno spazio al centro dell’Europa e noi siamo candidati ad occuparlo per ragioni di contiguità geografica, di legami storici e di presenza economica” precisa ancora il possibile futuro leader dei DS Piero Fassino.
Nei Balcani – dopo la prima fase di incertezza – la penetrazione economica, l’attivismo diplomatico e la presenza militare, sono le tre direttrici con cui l’Italia sta inserendosi sempre più nella regione. Questa politica significa anche misurarsi con gli interessi strategici delle altre potenze, interessi in alcuni casi convergenti ed in altri divergenti. Dunque la fine della guerra fredda ha posto alla politica estera italiana nuove competenze e nuovi scenari con cui misurarsi. La corsa alla “nuova frontiera dei mercati dell’Europa dell’Est”, vede impegnati anche i capitali italiani che sono il quinto paese per investimenti complessivi nell’Est. L’attivismo finanziario ed industriale del “polo economico” del Nordest e del “Sudest” italiano verso i Balcani è cresciuto enormemente negli anni ‘90.
L’intervento italiano nei Balcani e nell’Est sta ormai dentro il cromosoma della politica estera italiana e non sarà certo un ruolo diverso dagli altri negli obiettivi, nei progetti e, come dimostrato dall’aggressione militare contro la Jugoslavia, anche nelle forme.
Da tempo gli esperti strategici e i gruppi economici italiani stanno lavorando all’ individuazione di aree di spartizione geoconomica in cui dosare i fattori di concertazione e quelli di competizione. Cinquanta anni dopo la seconda guerra mondiale, la crisi balcanica e il Mediterraneo si presentano come un terreno di sperimentazione dei nuovi rapporti di forza tra le varie potenze e dunque sollecita le ambizioni anche di una media potenza come l’Italia.
Lo scenario balcanico offre alle ambizioni dell’Italia le condizioni per una nuova politica di intervento. Riemerge però storico e politico dello snodo del rapporto di concertazione-competizione con la Germania da una parte e con gli Stati Uniti dall’altra. “ La presenza italiana nei Balcani, nel bacino danubiano, nel Mar Nero, va concordata non solo con la Germania ma anche con la Russia a cui l’Italia deve riconoscere il ruolo di grande potenza europea e di grande partner economico, un’alleata potenziale dunque” sottolinea Incisa di Camerana. A suo avviso, la nuova fase storica ha posto all’Italia due problemi : “ La priorità del nostro rapporto con la Germania e la possibilità di sfruttare quel potenziale geopolitico e geoeconomico che l’Italia ha avuto storicamente nella direzione orientale e balcanica e che è stato ritagliato violentemente dalla guerra fredda. In entrambi i casi l’Italia ha una libertà di manovra senza precedenti….Insieme alla Germania, l’Italia è il paese europeo che guadagna di più dalla vittoria occidentale nella guerra fredda “. Al di là della fonte da cui provengono queste valutazioni (Ludovico Incisa di Camerana è un ex diplomatico, cervello della politica estera della DC e autore di numerosi testi sulle relazioni internazionali), esse appaiono estremamente plausibili (3).
Ma l’area di influenza dell’Italia non guarda solo a Est. Con i processi di privatizzazione e liberalizzazione imposti dal FMI ai paesi del Maghreb e del Makresch, gli spazi per la penetrazione capitalista si sono allargati. In questi si è inserita con forza anche il capitalismo italiano, soprattutto nei settori delle risorse energetiche (petrolio, gas), nelle telecomunicazioni e nella filiera del tessile-cuoio. «Anche sulla sponda Sud, forse più velocemente di quanto si potesse sperare soltanto poco tempo fa, è arrivata una rivoluzione che marcia su due gambe : telefoni cellulari e privatizzazioni. L’onda del cambiamento ha cominciato a muoversi tre anni e mezzo fa ma ha accelerato nell’ultimo anno e mezzo» segnala una autorevole pubblicazioni per gli investimenti esteri (4)
Se c’è da segnalare la crescente presenza della Fiat in Marocco, Algeria, Turchia, la filiera principale resta quella del petrolio (e del gas) e delle grandi infrastrutture anche in relazione alla crescita degli investimenti nell’area del Mar Caspio e alla conseguente rete di pipelines che attraverseranno e raggiungeranno i paesi del Mediterraneo Sud.
Le relazioni economiche e politiche dell’Italia con i paesi mediterranei e mediorientali sono cresciute o si sono mantenute anche nel caso di paesi “critici” per le relazioni con gli Stati Uniti (come Libia, Iran, Siria) e per la situazione interna (Algeria). Queste relazioni sono state al centro di aspre tensioni tra Italia e Stati Uniti e, più complessivamente tra Unione Europea e USA (vedi il “dialogo critico” con l’Iran e l’opposizione europea a nuovi attacchi militari americani contro l’Iraq) o la più aperta e complessiva divergenza di interessi sulla gestione del “processo di pace” in M.O.
Il progetto di integrazione dei “Paesi Terzi Mediterranei” nel mercato comune con l’Unione Europea previsto per il 2010 (deciso alla Conferenza Euromediterranea di Barcellona nel ‘95), rappresenta una competizione aperta con l’egemonia statunitense nel bacino Mediterraneo, ma le strettissime relazioni economiche tra Europa e Maghreb sono del resto note e consolidate
Dal canto opposto, la nascita dell’asse USA-Turchia-Israele, segna, sul piano economico e militare, un fattore strategico evidente teso a fronteggiare il tentativo del polo europeo nel suo complesso di stabilire la sua influenza nell’area, ma è un asse sempre più contraddittorio sia per le incursioni europee nell’area euroasiatica (dove secondo Brzezinski si giocano i veri rapporti di forza) sia perchè, come sostiene Helmut Sonnenfeldt “gli americani non sono riusciti a mantenere uno straccio di alleanza con nessun paese arabo”.
L’Italia non solo è interna a questo scontro crescente tra UE e USA nel Mediterraneo, ma è chiamata (e si è candidata a svolgere) un ruolo di primo piano sia sul piano politico che su quello economico. E’ vero che due paesi “ad influenza USA” come Turchia ed Israele hanno tuttora un peso rilevante nei rapporti economici dell’Italia nella regione, ma la speciale relationship dell’Italia con la Siria, l’Iran o con la Libia e l’Iraq- in aperto contrasto con i diktat degli USA – potrebbe evolversi rapidamente arrivando così alla messa in crisi di un paese strategico per la regione e “al limite” tra Europa e Stati Uniti come l’Egitto.
Il Mediterraneo Sud insieme all’Europa dell’Est, comincia ad avere un peso crescente nelle relazioni economiche dell’Italia.
Nel nuovo quadro internazionale, dunque, la tradizionale subalternità agli Stati Uniti potrebbe diventare inservibile e, tutto sommato, inadeguata ad una media potenza integrata nell’Unione Europea a cui la nuova fase storica sta offrendo “spazi di espansione”. Mediterraneo e Balcani diventano scenari in cui le ambizioni italiane possono costruirsi le proprie aree di influenza. E’ un disegno neocoloniale che oggi viene riproposto nello scenario della competizione globale.
Le conseguenze sulla società
L’Europa dell’Est e il Mediterraneo Sud si presentano come le “nuove frontiere” per lo sfruttamento delle risorse e della manodopera in funzione delle filiere di produzione che partono, attraversano e ritornano in Italia per usufruire del massimo valore aggiunto. I capitoli precedenti documentano piuttosto chiaramente questo processo.
I bassi salari, un esteso esercito industriale di riserva, la privatizzazione dell’economia, la debolezza finanziaria di questi paesi offrono una ghiotta opportunità per i grandi e piccoli gruppi capitalisti italiani ma producono anche serie conseguenze sulla composizione di classe nel nostro paese.
E’ indicativo in tal senso, uno studio commissionato dalla Confindustria e dal CNR su un campione di alcune decine di imprese dei settori tessile-abbigliamento e della meccanica, lo studio conferma pienamente la polarizzazione sociale che si produce nella divisione del lavoro come effetto della delocalizzazione.
I lavoratori «qualificati» nelle case-madri delle multinazionali italiane che hanno delocalizzato rappresentano il 53,5% degli occupati rispetto al 36,4% degli occupati nelle imprese che non hanno delocalizzato. Non solo ma i «colletti bianchi» sono cresciuti in sette anni dal 26,2 al 33,4% nelle multinazionali rispetto al 22,6% a cui si ferma la quota dei «white collar» nelle imprese che non dispongono di filiere all’estero. «E’ stato privilegiato un sistema di lavoro skill-intensive, per rafforzare in Italia funzioni amministrative, commerciali, di marketing, di innovazione, lasciando all’estero le funzioni di manodopera scarsamente qualificate». (parole del Sole 24 Ore).
Le ambizioni dell’Italia cominciano dunque ad operare concretamente e ciò non può non avere ripercussioni sulla composizione di classe all’interno del nostro paese (vedi la nuova aristrocrazia operaia), nella soggettività e nella formazione culturale delle classi sociali subalterne, nell’organizzazione degli apparati statali necessari (logica bipolarista che assicura stabilità politica all’interno e consenso bipartizan in politica estera, apparati coercitivi, esercito professionale) e nel ruolo internazionale che l’Italia andrà assumendo verso i popoli degli altri paesi. Il New York Times, sosteneva quattro anni fa, che in Somalia (dove a seguito dell’intervento militare italiano erano emersi casi di tortura contro le popolazioni) l’Italia avesse perso la sua «innocenza». La perdita di innocenza significa assumersi la responsabilità della colpevolezza. Il mito degli «italiani brava gente» è destinato ad infrangersi molto più rapidamente di quanto ci fossimo abituati a pensare.
Note:
(1) «L’Italia s’è desta», AA.VV. edizioni Laboratorio Politico, novembre 1997
(2) «La vera posta in gioco della guerra. Il «Grande Gioco» nei Balcani, Quaderni CESTES, giugno 1999
(3) Ludovico Incisa di Camerana: «La vittoria dell’Italia nella terza guerra mondiale», Laterza, 1996
(4) Mondo e Mercati, 11/5/2000.
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