La ricomposizione del blocco sociale antagonista, l’organizzazione di classe e i comunisti
Sergio Cararo
La scelta da parte di alcuni compagni ed esperienze del movimento comunista di riaprire il dibattito e l’inchiesta sul rapporto tra soggettività politica e blocco sociale antagonista nell’Italia del XXI° Secolo, è una scelta maturata – sulla base di una analisi concreta della realtà concreta – già negli anni Novanta. Prima con il giornale Contropiano e poi con la costituzione della Rete dei Comunisti, in questi anni abbiamo cercato di portare dentro un dibattito, troppo spesso liturgico, alcuni necessari elementi di rottura culturale e di sperimentazione concreta nell’iniziativa politica, sociale e sindacale. Un contributo, tanto più necessario, all’indomani della catastrofe politica ed elettorale della “sinistra” mentesi rivela la crisi sistemica del capitale ed è in corso una potente offensiva contro i lavoratori e i ceti sociali subalterni..
Chi non fa inchiesta non ha diritto di parola. In questi anni, nel dibattito sulla composizione di classe e le caratteristiche del blocco sociale antagonista in un paese a capitalismo avanzato come l’Italia, ci siamo misurati con l’inchiesta di classe sulle condizioni materiali ma anche sulla soggettività dei lavoratori del nostro paese, traendone materiali e risultati che si sono rivelati essenziali per la nostra azione politica e sindacale.
La credibilità e le possibilità di una opzione comunista nel XXI Secolo e in una realtà come quella italiana, devono infatti fare necessariamente i conti con le modificazioni sociali e produttive intervenute in questi ultimi tre decenni nella realtà di classe e nella società. Modificazioni oggi nuovamente e fortemente scosse dalla nuova fase della crisi strutturale dell’economia capitalista.
In questi anni di lavoro di inchiesta e confronto sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista – di cui i comunisti dovrebbero tornare ad essere espressione politica e ipotesi strategica di affermazione degli interessi di classe nel nostro paese- abbiamo cercato di individuare quella che si potrebbe definire“l’ipotesi generale”. Questa chiave di lettura della realtà l’abbiamo individuata partendo dalle conseguenze che hanno provocato la mondializzazione, la finanziarizzazione e la concentrazione dell’economia capitalista – in altre parole le conseguenze della competizione globale o se volete dell’imperialismo – in una società come quella italiana che pur integrata nel polo europeo, mantiene alcune sue specificità (e arretratezze) di modello.
L’integrazione dell’Italia nell’economia mondiale – soprattutto nell’area europea – le trasformazioni intervenute nel ciclo produttivo e le conseguenze sociali della crisi economica in corso, stanno disegnando uno scenario dei rapporti sociali che, rafforzando il dominio capitalista nei rapporti di produzione, acutizza ferocemente la polarizzazione sociale verso l’alto e verso il basso.
Dall’inchiesta operaia sul campo realizzata in tutta Italia alcuni anni addietro, emergeva con evidenza il dato dei bassi salari tra i lavoratori italiani sia come dato oggettivo sia come percezione. Un dato che – in linea con il modello anglosassone – ha visto precipitare i salari soprattutto tra i lavoratori dei servizi privati.
Le prospettive indicate per anni da tutti gli istituti internazionali del capitale finanziario (dall’OCSE al FMI, dal G 8 alla Commissione Europea) sono piuttosto espliciti sulla inesorabilità di bassi salari e massima flessibilità come unico lavoro possibile nella prossima fase storica. Tale processo sta mutando radicalmente il concetto di “disoccupazione” ed estende a tutte le forze attive della società il ruolo di “esercito industriale di riserva”, dunque di una categoria marxiana che rivela ancora la sua estrema attualità.
Ed è proprio esaminando con rigore la realtà delle contraddizioni sociali dell’oggi che dobbiamo cercare di individuare i punti in cui la quantità delle contraddizioni può diventare qualità sul piano della lotta per il cambiamento.
Nel dibattito affrontato in questi anni abbiamo dovuto fare i conti con posizioni assai radicate nella sinistra, tra i comunisti e nel sindacato, che hanno continuato ad oscillare tra la mitologia di una realtà sociale che ha invece subito trasformazioni rilevanti ed un politicismo che ha ridotto il conflitto sociale alla dimensione esclusivamente istituzionale, elettorale e sovrastrutturale. Queste due tendenze hanno marciato parallelamente ad una sociologia neokeynesiana che – nella fretta di trovare un nuovo paradigma – ha esaurito il suo sforzo nell’accettazione di tesi costruite da studiosi piuttosto trendy sulla “fine del lavoro”, la globalizzazione, il postfordismo, le possibili economie di mercato sociale attraverso il terzo settore. La concretezza della crisi – in un certo senso – sta spazzando via molte rendite di posizione e molte teorie deformanti – vedi quella sulle “moltitudini” – e sta riponendo concretamente la discussione sulla struttura di classe della società e sulla centralità del conflitto capitale-lavoro che assume in se anche la contraddizione ambientale.
Ci è sembrato necessario cercare di coniugare l’analisi oggettiva della realtà sociale dei lavoratori che si presenta nel nostro Paese agli albori del XXI secolo, con la necessità di delineare il confronto sui possibili terreni di lotta, le forme di organizzazione adeguata, gli interlocutori sociali sui quali poter rinnovare una alternativa sociale e politica, dinamica e credibile.
La collocazione dell’Italia nella nuova divisione internazionale del lavoro, emersa negli ultimi due decenni, si è rivelata un fattore rilevante sia ai fini della lotta sociale, sindacale, politica sia dell’inchiesta di classe.
In Italia – e dunque in una delle “ metropoli della competizione globale” – si è andata estendendo la nuova organizzazione del lavoro – la lean production o produzione snella – che assegna alla fase finale di una catena del valore distribuita ormai a livello internazionale (tramite quelle che abbiamo definito le filiere mondiali di produzione) una particolare enfasi.
In Italia ormai si realizza l’assemblaggio, la pubblicità e la commercializzazione di manufatti o semilavorati prodotti in Cina, Romania, in Albania, nel Maghreb tramite una delocalizzazione produttiva rivelatasi impetuosa a partire dai primi anni Novanta.
Ma se le produzioni di scala dall’Italia sono andate nelle aree a basso salario, cosa è successo nella “parte alta” di questa nuova catena del valore che è stata individuate nelle “filiere mondiali di produzione” ?
La diminuzione quantitativa dei lavoratori nella produzione manifatturiera e l’aumento dei lavoratori nei servizi pubblici e privati alle imprese come tecnici informatici, artigiani contoterzisti, operai superspecializzati, agenti commerciali, addetti alla distribuzione ma anche di lavoratori dei servizi meno qualificati, è ormai un processo in via di consolidamento in Italia come nelle principali economie capitaliste. Il settore della logistica, dei trasporti, delle comunicazioni è diventato infatti decisivo nella filiera produttiva. È il processo di crescita dei lavoratori nella sfera della circolazione rispetto alla sfera della produzione che il vecchio Marx aveva individuato molto chiaramente.
Ma, attenzione, come è stato sottolineato più volte, in Italia come negli altri paesi avanzati dell’Europa, è errato ritenere che la classe operaia tradizionale sia diminuita. Come dimostrano alcuni dati, nel cuore dell’Europa la crisi delle grandi fabbriche non è avanzata come in Italia. In secondo luogo la classe lavoratrice di fabbrica è stata di fatto ricollocata in un’ area semiperiferica rappresentata dall’Europa dell’Est, dal bacino Mediterraneo e dalle nuove periferie industriali in Asia; due di queste aree (Europa dell’Est e Maghreb) sono a ridosso della “metropoli europea” e sempre più integrate con essa. Le catene di montaggio di tipo fordista si sono dunque spostate dal triangolo industriale e dai distretti italiani alle nuove periferie industriali dei Balcani o del Maghreb.
Infine sarebbe errato sottovalutare come anche all’interno del “modello Italia”, tramite le nuove differenziazioni salariali, i “patti territoriali” tra imprese, enti locali, sindacati e governo nel Meridione, l’immissione massiccia di lavoratori immigrati nel mercato del lavoro, il lavoro nero in Calabria, Puglia, Campania, Sicilia introdotti in questi anni, si sono mantenute o ricreate “nicchie” di lavoro di tipo fordista e in alcuni casi quasi schiavista.
La destrutturazione del lavoro
In Italia dalla seconda metà degli anni ’70 in poi abbiamo assistito ad un violento processo di destrutturazione del mercato del lavoro. Questo processo si è abbattuto prima tra i lavoratori salariati delle grandi fabbriche ed ha visto la chiusura di interi stabilimenti, una impetuosa delocalizzazione produttiva (cresciuta nei primi anni Novanta, particolarmente verso Est all’indomani dell’89) e una riorganizzazione complessiva basata su unità produttive con sempre meno lavoratori occupati in Italia (il 90% delle imprese in Italia ha meno di 10 operai).
La seconda fase della destrutturazione (anni Novanta) si è abbattuta sui lavoratori dei servizi strategici a rete nei trasporti, nelle telecomunicazioni, nell’energia e nel credito attraverso le privatizzazioni, la flessibilità, le esternalizzazioni.
La terza fase è in corso e si sta concentrando contro l’ultimo fronte di rigidità della forza lavoro cioè i lavoratori delle amministrazioni pubbliche dove negli anni scorsi sono già stati introdotti precarietà e logica d’impresa a scapito di ogni funzione pubblica.
L’Italia fino ai primi anni ’90 è stata una società con una forte prevalenza dei ceti medi, una prevalenza dovuta al fatto che pezzi consistenti di lavoratori salariati erano stati integrati dentro la condizione materiale e culturale assimilabile alle “classi medie” (è sufficiente pensare ai lavoratori dei servizi a rete o del pubblico impiego). La borghesia ha sapientemente utilizzato queste nuove stratificazioni sociali per isolare e destrutturare i lavoratori salariati dell’industria i quali erano quelli che per tutto un ciclo hanno potuto contare su una condizione di unità politica e materiale di classe.
La cooptazione delle classi medie nella modernizzazione del sistema è stata decisiva per la sconfitta degli operai Fiat nel 1980 e per l’abolizione della Scala Mobile nel 1984/85. L’uso abnorme della spesa pubblica in questo processo di cooptazione sociale di pezzi di lavoro salariato, dentro il progetto di riqualificazione e di rilancio del capitalismo in Italia, è stato evidente fino a quando – nel 1992, con l’esplodere di Tangentopoli e l’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica – il segno di questa modernizzazione ha assunto il carattere aperto del liberismo, delle privatizzazioni, della riduzione della quota di ricchezza destinata al lavoro a tutto vantaggio di profitti e rendite.
Dentro queste modificazioni strutturali, occorre cominciare ad individuare i settori sociali su cui diventi possibile rimettere in moto un processo di ricomposizione di un blocco sociale antagonista e l’ individuazione dei punti tendenzialmente più acuti di contraddizione e conflitto. Questo è il vero terreno di inchiesta, confronto ed azione politica e sindacale.
Capire quali saranno i settori di classe in espansione e quelli in declino appare fondamentale per adeguare ad essa il progetto di trasformazione e le forme di organizzazione.
Se l’operaio di linea (l’operaio-massa) è stato il centro del conflitto di classe nell’epoca del fordismo, l’epoca dell’accumulazione flessibile mette in luce nuove figure della produzione e dei servizi strategici: una sorta di “lavoratore unico” (i guru della Confindustria lo chiamano lavoratore poliedrico) estremamente flessibile, sufficientemente o altamente scolarizzato, in grado di cambiare mansioni e svolgere funzioni assai diverse tra loro, privo di qualsiasi conoscenza reale del processo in cui viene coinvolto ma privo anche di garanzie salariali, sindacali, previdenziali.
I risultati dell’inchiesta tra i lavoratori condotta alcuni anni fa (pubblicata ne “La coscienza di Cipputi, edizioni Mediaprint, 2000) , confermano questa tendenziale omogeneità del lavoro e dei lavoratori che vede ridursi sempre più la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale (il 45% dei casi), che annulla le differenziazioni sulla base dei titoli di studio, che ricorre nella maggioranza dei casi all’uso dei computer e di macchine automatiche (anche se emerge in modo impressionante l’arretratezza dell’industria in tal senso) e che vede sia i lavoratori regolari che i precari adattabili ad ogni esigenza del processo lavorativo.
Il capitalismo rivela il suo carattere regressivo
La rottura del compromesso sociale in funzione antioperaia, è avvenuta sia sul piano del sistema politico sia sul piano sociale con l’avvio delle misure economiche dettate dai parametri di Maastricht indispensabili alla costruzione del polo imperialista europeo. In Italia, questi provvedimenti, sono stati gestiti attraverso la concertazione con i sindacati ufficiali i quali hanno sposato, a pieno, gli interessi dell’economia nazionale e delle compatibilità della cosiddetta “Azienda Italia” dismettendo, completamente ogni elemento di alterità conflittuale.
Questo processo ha portato al crollo dei salari dei lavoratori italiani (oggi i più bassi d’Europa ad esclusione del Portogallo), ad una spartizione al ribasso della quota del monte salari da dividere in un numero più ampio di lavoratori dovuta alla crescita dell’occupazione attraverso il lavoro precario e intermittente. Sul piano generale questa intensificazione (qualitativa e quantitativa) dello sfruttamento è tra le cause più importanti una crescita vertiginosa dei lavoratori morti e feriti sul lavoro, ma soprattutto ha portato al pesante arretramento della quota di ricchezza destinata al lavoro rispetto a quella destinata a profitti e rendite. Secondo alcuni calcoli e proiezioni statistiche, siamo precipitati ai livelli del 1881, cioè all’Ottocento.
Questa lotta di classe del Capitale contro il Lavoro, ha polverizzato la vecchia mappa sociale fondata sulla prevalenza dei ceti medi ed ha provocato una brusca polarizzazione sociale che presenta tratti di vera e propria proletarizzazione di quote sempre più ampie di lavoratori.
Gli effetti di questa proletarizzazione acuiscono nitidamente il carattere di classe del conflitto sociale e ne aumentano enormemente le potenzialità politiche. Questo processo, però, non ha incontrato sulla sua strada, né al suo fianco, una soggettività comunista e anticapitalista adeguata a coglierne le domande, la rabbia, la voglia di rivalsa, l’insicurezza sociale, al contrario ha trovato una soggettività e una sovrastruttura culturale reazionaria (e per molti aspetti fascista, razzista e xenofoba) che ne ha intercettato le spinte, le paure e le rabbiose doglianze.
Oggi i lavoratori e le loro famiglie si trovano apertamente in competizione in termini di salari, di spazio e di usufruibilità dei servizi con i lavoratori migranti e le loro famiglie. E’ una competizione in basso innescata e alimentata dalle politiche di riduzione del monte salari, di taglio e degrado dei servizi sociali, degli alloggi popolari, dei trasporti pubblici. Questa situazione mostra, chiaramente il carattere regressivo del capitalismo e lo mostra non solo ai militanti comunisti ma all’insieme della società.
Oggi in Italia, come altrove, il capitalismo sta evidenziando enormemente la contraddizione tra aspettative e realtà. La crisi inizia a delineare caratteri regressivi ed antisociali di questa formazione sociale. E che questa tendenza non sia una nostra profezia ideologica è dimostrato dall’esplodere della questione ambientale e del suo stretto intreccio con gli attuali meccanismi di valorizzazione del capitale, con la immanente manomissione del territorio e con i pericoli di un probabile infarto ecologico del pianeta.
I giovani lavoratori spesso hanno un livello di istruzione e scolarizzazione elevato, ma la logica del mercato è in grado di determinare solo lavori sottopagati e al di sotto delle legittime aspettative. Questa situazione non riguarda solo gli operatori dei call center o dei servizi sociali, ma anche settori avanzati come i ricercatori scientifici o i giornalisti. In tutti questi comparti imperversano precarietà e salari irrisori al pari del mondo della scuola pubblica e della formazione sottoposto da anni, prima con i governi di centro-sinistra ed ora con il governo Berlusconi ad un continuo declassamento.
Per la prima volta dall’Ottocento, ci troviamo di fronte ad un declino generazionale per cui i nostri figli sono destinati ad avere aspettative ed a vivere in condizioni peggiori della nostra generazione. Si è così interrotto un processo progressivo che aveva visto l’attuale fascia sociale dei cinquantenni vivere meglio dei genitori, che a loro volta hanno vissuto meglio dei loro genitori e così via. E’ un arretramento visibile e pesante soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato piuttosto che nei paesi della periferia industriale dove, al contrario, a seguito dell’esplodere di forti movimenti sociali, sono in corso variegate ed interessanti controtendenze rispetto ai decenni scorsi in cui imperversavano il selvaggio liberismo e gli effetti della incontrastata politica di rapina neocoloniale.
In questi anni di “integrazione europea” dell’Italia, abbiamo verificato come non solo l’organizzazione e il mercato del lavoro, ma anche lo Stato come mediatore sociale, regolatore dell’economia, gestore del welfare state è stato radicalmente rimesso in discussione prima dal dogma neoliberista ed oggi dall’intervento statalista a sostegno delle banche dentro la crisi. Oggi la funzione dello Stato si conferma essere quella del “Comitato d’affari” del capitale, con il preciso compito di trasferire ricchezze e risorse dai settori popolari alle imprese, dai redditi da lavoro alla rendita finanziaria.
Le privatizzazioni, la riduzione delle spese sociali, gli aumenti delle tariffe dei servizi ( trasporti, telecomunicazioni, energia), l’utilizzo della leva fiscale , i paracaduti finanziari per le banche, sono gli strumenti attraverso cui lo Stato sottrae reddito ai lavoratori e alle famiglie per consegnarlo alle aziende e al grande capitale finanziario. Lo strumento fiscale assume un evidente carattere di classe, diventando un fattore centrale di questo trasferimento di ricchezze di segno antipopolare. Siamo dunque passati dal welfare state al Profit State.
È un cambiamento di funzione che emblematicamente ha via via sgretolato anche i ceti medi sviluppatisi nell’epoca del welfare state (includendovi ampie quote di lavoratori dei servizi e del pubblico impiego), che acutizza sempre più la polarizzazione di classe nella società italiana e rende obsolete le tesi fondate sulla centralità dei ceti medi.
I risultati dell’inchiesta effettuata danno su questo risposte interessanti e in controtendenza che vedono la grande maggioranza dei lavoratori respingere la logica delle privatizzazioni dei servizi sociali (pensioni, sanità, scuola) e – in misura minore – delle aziende pubbliche dei servizi. Diversamente da quanto indotto dai templari della logica di mercato, lo Stato come regolatore e mediatore sociale, non viene affatto percepito come un tabù o un totem dai lavoratori. I massicci interventi degli Stati nella crisi in corso e a sostegno delle banche, hanno confermato che questa percezione è oggi molto ampia. Ma nei punti alti del sistema sociale ciò viene auspicato non come elemento di riequilibrio della distribuzione del reddito o della ricchezza quanto come “più Stato…per il mercato”.
I comunisti e la questione sindacale
La destrutturazione del mercato del lavoro, i licenziamenti di molti delegati e la verticale riduzione degli spazi democratici dentro i sindacati ufficiali, hanno fatto sì che in Italia, negli anni ’80 hanno cominciato a sorgere i sindacati di base organizzati da comunisti, da settori più radicali della sinistra e da delegati e dirigenti sindacali non asserviti alla linea dei sacrifici portata avanti dalla Cgil. Queste esperienze di base sono nate lì dove era possibile consolidare una presenza significativa e organizzare settori di lavoratori, in modo particolare nel settore pubblico e nei servizi a rete (trasporti, energia, telecomunicazioni). Ancora oggi rimane ardua l’organizzazione dei sindacati di base nelle fabbriche ancora attive o nei settori dove l’agibilità sindacale è più ridotta e il controllo dei sindacati ufficiali convive, sostanzialmente, con il comando padronale. Ma esperienze significative non sono mancate in passato ed altre ne stanno emergendo anche in questo segmento sociale. Infatti negli ultimi anni, da Mirafiori a Melfi passando per Pomigliano d’Arco o alle tante fabbriche dei distretti industriali fino ai centri della grande distribuzione (Auchan, Carrefour etc.) molti delegati iscritti ai sindacati di base sono stati repressi e licenziati a causa della loro attività di promozione dell’autorganizzazione.
A tale stadio delle contraddizioni riteniamo che la linea, implicita od esplicitata, secondo cui bisogna sempre svolgere attività politica anche dentro i sindacati “reazionari”, nell’attuale contesto storico – profondamente diverso da quello in cui questa tesi è stata avanzata da Lenin – non ha più lo stesso significato anzi relega la soggettività comunista ad una funzione di mera, quanto inefficace, testimonianza. Gli spazi di agibilità democratica oramai inesistenti bloccano ogni vera dialettica interna, ai sindacati concertativi, che possa realmente modificarne la maggioritaria linea politica collaborazionista.
Inoltre la modifica della composizione del mondo del lavoro riduce la rappresentanza stessa dei sindacati storici che rappresentano ormai una minoranza dei lavoratori rispetto all’intera gamma con cui si articola lo sfruttamento capitalistico. In Italia come in Spagna o in Francia il tasso di sindacalizzazione è mutato al ribasso, rispetto a quanto ancora permane nei paesi del Nord/Europa, per cui la stessa forma tradizionale del sindacato deve trovare nuove modalità di configurazione, di sviluppo organizzativo e di compiuta strutturazione nei posti di lavoro e nella società tutta.
A nostro avviso, per i comunisti oggi la scelta dell’organizzazione e del rafforzamento del sindacalismo di base, indipendente e alternativo a quello concertativo della Cgil e collaborazionista di Cisl-Uil è diventata un progetto strategico. Un fondamentale punto di programma politico generale che costituisce, a nostro giudizio, un elemento di linea fondante per il rilancio di una moderna opzione comunista che vuole rapportarsi alle dinamiche vive e conflittuali agenti. Il problema non è quello di sancire uno “strappo”con un tessuto di compagni e delegati combattivi ancora all’interno dei sindacati concertativi (per quanto la normalizzazione stia riducendo ferocemente i margini di agibilità democratica e rappresentatività di questi compagni dentro quella realtà). Si tratta invece di prendere atto che i comunisti e i militanti anticapitalisti devono costruire e rafforzare gli strumenti concreti di relazione con i settori di classe nel nostro paese per orientarli ed affrontare in modo organizzato il conflitto sociale. Per troppo tempo i comunisti si sono limitati a fare agitazione politica dentro questi sindacati o si sono fatti assorbire da una interminabile battaglia interna di minoranza che non ha mai concretizzato livelli reali di organizzazione autonoma sul piano delle lotte e della successiva tenuta organizzativa. Questa strada non ha prodotto i risultati sperati sul piano sindacale né su quello politico (se molti lavoratori si iscrivono alla Fiom ma poi votano per la Lega – oppure viceversa come sostiene acutamente il compagno Giorgio Gattei – vuol dire che la contraddizione c’è tutta e va compresa fino in fondo). Al contrario il sindacalismo di base ha dimostrato di essere una realtà consolidata che in molti casi risponde dall’esigenza di una identità politica e di classe dei lavoratori ancora più chiaramente di quanto abbia saputo fare, nel corso degli anni passati, la “politica” dei partiti della sinistra.
La soggettività di classe e “l’orizzonte riformista”
Gli elementi che attengono alla sfera della sovrastruttura sono stati troppe volte sottovalutati o affrontati in maniera subalterna rispetto alla capacità egemonica della borghesia sulla società italiana. Se è vero che siamo in presenza di un processo di polarizzazione sociale crescente e di acutizzazione delle contraddizioni sociali non è affatto scontato che da queste emerga una coscienza di classe più avanzata rispetto a quella che abbiamo conosciuto nei decenni scorsi.
Questo è un terreno su cui il capitale lavora con la stessa sistematicità con cui affronta le contraddizioni del proprio modo di produzione. Non basta più domandarci perchè ampi settori di proletariato metropolitano votino per la destra o perchè nel Nord quote consistenti di lavoratori salariati ed autonomi affidino la propria ambizione di cambiamento alla Lega o nel Sud al PdL. Dall’inchiesta tra i lavoratori emerge con evidenza una contraddizione tra la frustrazione o la voglia di rivalsa della propria condizione materiale e le loro forme di rappresentanza politica o sindacale. In sostanza, anche in presenza di una percezione pesante delle proprie condizioni e aspettative sociali, nella migliore delle ipotesi non si va ancora oltre un “riformismo radicale” che non mette in discussione il sistema
La dialettizzazione tra condizione sociale e coscienza di classe, dentro le modificazioni intervenute e dentro quelle in corso, non può essere un alibi per i peggiori riti della real politik ma deve diventare un terreno di indagine rigorosa e di riflessione sulle forme dell’intervento politico e sindacale. Gettare lo spugna o farsi illusioni non è serio.
Nei prossimi mesi vogliamo misurarci con i compagni ancora attivi, con i delegati sindacali e gli attivisti sociali sull’esigenza di tentare una lettura aggiornata ma “rivoluzionaria” dello scontro che oppone il blocco sociale antagonista del Lavoro contro quello del Capitale nella condizione metropolitana che è venuta assumendo una sua centralità strategica sia sul piano della riorganizzazione produttiva del capitale sia su quello della scomposizione/composizione di classe.
E’ ormai evidente come le città-fabbrica del vecchio triangolo industriale (Torino, Milano, Genova) abbiano cambiato fisionomia e non solo sul piano urbanistico con il boom delle cosiddette bonifiche delle aree industriali dimesse (secondo alcuni dati già 100 milioni di metri cubi di aree industriali dismesse sono stati bonificati e ristrutturati nelle grandi metropoli). E’ sufficiente guardare a cosa sta accadendo nell’area metropolitana milanese in previsione dell’Expo del 2015. Il caso della INNSE si è rivelato emblematico. L’inserto scientifico del Sole 24 Ore prova così a disegnare lo scenario post-industriale di alcune città-fabbrica del modello italiano“Il paesaggio della conoscenza comincia materialmente dove finisce l’industria pesante. Le forme di molti insediamenti siderurgici o petrolchimici, lasciano il posto a nuove iniziative: fiere, centri congressi, mostre, imprese di software, centri di ricerca” (NòvaSole 24 Ore novembre 2006).
Sul piano della composizione sociale, le concentrazioni di classe – le grandi fabbriche leninisticamente intese – in cui agiva concretamente l’oggettività, l’identità e la soggettività di classe sono disperse, sono distribuite sia lungo le filiere internazionali di produzione sia nella dispersione territoriale attraverso i distretti industriali che trova però nelle aree metropolitane un nuovo fattore di centralizzazione verticale.
Come diventa possibile allora cercare di individuare ed intercettare gli elementi di ricomposizione degli interessi di classe, la loro rappresentanza politica, la loro identità e soggettività politica che permettano di riaprire con qualche chance di vittoria il conflitto Lavoro-Capitale in un paese a capitalismo avanzato? Dov’è che oggi si concentra il blocco sociale antagonista che può re-ingaggiare una lotta vincente per l’egemonia contro il Capitale?
Blocco sociale antagonista e aree metropolitane
Una fotografia della realtà ci fa vedere che il valore aggiunto della produzione aumenta e che aumentano anche i lavoratori salariati impegnati a far crescere questa ricchezza, vediamo anche come l’introduzione delle nuove tecnologie, dopo aver rafforzato in una prima fase l’aristocrazia salariale per giocarla contro il resto del blocco sociale antagonista, sotto la spinta della crisi e di una sfrenata competizione globale sta producendo una crescente proletarizzazione di parte dell’aristocrazia salariale e dei ceti medi, ma sta introducendo una precarizzazione del lavoro anche nei settori più avanzati sul piano della conoscenza (i knowledge workers) e dell’uso delle nuove tecnologie (vedi gli operatori dei call center, i ricercatori a contratto, gli ingegneri della Motorola e delle Nokia sottopagati o gli stessi giornalisti).
Secondo l’elaborazione del Sole 24 Ore (Job 24) i lavoratori della conoscenza sarebbero aumentati in modo rilevante anche in Italia (circa il 41% dei lavoratori occupati) superando gli stessi Stati Uniti:
Incremento dei knowledge workers sul totale dei lavoratori 1995-2006
1995 | 2006 | |
Stati Uniti | 34 | 38 |
Regno Unito | 34 | 43 |
Francia | 38 | 52 |
ITALIA | 29 | 41 |
Spagna | 23 | 33 |
(elaborazione Job 24 in sole24 ore del 1 novembre 2006)
Come abbiamo visto, la struttura produttiva capitalistica si è articolata su filiere internazionali che delocalizzano le produzioni a basso e bassissimo valore e mantengono al centro quelle a maggiore valore aggiunto (rifinitura, marchio, marketing, commercializzazione) ed ha sussunto al capitale il lavoro materiale e immateriale dei lavoratori.
Una delle conseguenze per noi più interessante (ed è ormai evidente per tutti, dalla Repubblica al New York Times) è che siamo di fronte ad un processo di polarizzazione sociale e “proletarizzazione” del lavoro assai più accentuata che rispetto a dieci anni fa. Se il ventennio liberista aveva giocato e imposto gran parte della sua egemonia sul carattere progressivo del suo modello, la crisi economica oggi rende evidente e tangibile a molti il suo carattere regressivo. Per la sinistra di classe – sul piano oggettivo – è una situazione eccellente. Ma su quello della soggettività e della rappresentanza politica del blocco sociale antagonista le cose stanno diversamente ed appaiono assai più arretrate. Per questo c’è bisogno di un approfondimento teso ad individuare la geografia politica e sociale di questa nuova fase del conflitto Capitale-Lavoro nella nostra realtà. Da qui è nata la riflessione sulle aree metropolitane come “territorio politico e sociale” dove quantità e qualità delle contraddizioni di classe possono delinearsi con più forza e con capacità egemoniche sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista fortemente frammentato dalla riorganizzazione capitalistica di questi ultimi trenta anni e reso privo di identità di classe dall’egemonia esercitata dal Capitale e che ha sorretto e accompagnato la sua visione di lotta di classe contro il Lavoro. Il carattere regressivo del Capitale, è oggi più evidente e conflittuale proprio nelle metropoli per la concentrazione dei fattori di conflitto tra Capitale e Lavoro. Anche secondo un recente rapporto dell’OCSE, è proprio nelle metropoli – incluse quelle europee e dei paesi a capitalismo avanzato – che è maggiormente acuta e accentuata la disuguaglianza tra ricchezza e povertà.
Le metropoli del capitale vengono ad assumere così il carattere di magazzino della forza lavoro in cui domanda e offerta si incontrano ormai in condizioni enormemente più svantaggiose per il Lavoro.
Come notava già Engels nel suo saggio su “La questione delle abitazioni”, le concentrazioni urbane ammassano quantità sovrabbondante di forza lavoro. In questa nuova concentrazione, la produzione flessibile trova i “requisiti ambientali” idonei per il suo massimo decentramento (e per il massimo accentramento dei poteri decisori) e per la mobilità completa che oggi è la necessaria condizione per la competizione globale capitalistica di questa fase storica.
La massa della forza lavoro delle metropoli, quello che potremmo definire il proletariato metropolitano, vive oggi una condizione di crescente degrado che è la diretta conseguenza dell’abbattimento dei costi di riproduzione. E’ un degrado acutizzato dalla precarietà del lavoro, dalle privatizzazioni e dallo smantellamento dei servizi sociali, dall’aumento delle imposte locali, dall’aumento delle tariffe e delle abitazioni, dalla difficoltà di poter usufruire di forme di reddito diverse dal lavoro (sempre più insicuro).
In sostanza le metropoli e la condizione sociale del proletariato metropolitano, rappresentano un terreno importante di sperimentazione e verifica per i sindacati, i movimenti sociali e per l’azione politica dei comunisti, perché potrebbe rivelare quasi “naturalmente” il fronte di lotta sulla riproduzione sociale complessiva proprio lì dove il Capitale ha nuovamente concentrato i settori di classe dopo averli frammentati, delocalizzati, dispersi ed egemonizzati con lo smantellamento dei grandi stabilimenti e della grandi concentrazioni industriali, ma soprattutto lì dove il suo carattere regressivo si manifesta con maggiore violenza.
Un contributo al sindacato conflittuale del XXI° Secolo
Abbiamo spesso scritto e detto che i comunisti dentro i sindacati non possono limitarsi (o condannarsi) alla propaganda e alla testimonianza, ma devono cercare di contribuire alla loro crescita con l’elaborazione politica e teorica e con sperimentazioni nel movimento reale. In questi anni – ad esempio – abbiamo sviluppato una analisi e una inchiesta articolata sulla realtà delle aree metropolitane come territorio politico in cui quantità e qualità delle contraddizioni di classe, dopo i decenni delle grandi ristrutturazioni, possono trovare una sintesi che fino a ieri era assicurata dalle grandi concentrazioni industriali. La crescente frammentazione della composizione di classe vede assumere nuova e maggiore rilevanza alla questione del salario sociale cioè a quel complesso di servizi, contraddizioni, esigenze che il salario monetario e il rapporto stabile con il luogo di lavoro non assicurano più come prima. I precari, i giovani lavoratori intermittenti e le loro esigenze non trovano più nel posto di lavoro e nella filosofia lavorista il luogo e il simbolo della loro identità di classe. La ricomposizione di questa identità sociale frammentata può avvenire sul territorio qualora in esso agisca un “sindacato” capace di organizzare, orientare, dare identità ad una sorta di contrattazione sociale che accompagni quella sul lavoro o la sostituisca qualora questa non abbia la possibilità di esistere. La contrattazione sociale sul diritto alla casa, contro il carovita, per maggiori servizi sociali può aprire un canale di comunicazione sociale e di organizzazione di interi settori di classe oggi completamente atomizzati dalla destrutturazione del mercato del lavoro.
Per tali motivi e sulla base di questa analisi, sul piano dell’organizzazione concreta del blocco sociale antagonista, viene assumendo crescente interesse la sperimentazione sul campo dell’idea/forza di una sorta di “sindacato metropolitano” che verifichi le possibilità di ricomposizione di un proletariato metropolitano fortemente intrecciato – ma diversificato – dal mondo del lavoro tradizionale che abbiamo conosciuto e dentro cui ci siamo battuti in questi decenni. L’altro tema su cui occorrerà collettivamente verificarsi e politicamente attrezzarsi, nella nuova condizione del conflitto, è quello che attiene all’ingresso dei migranti nel mercato del lavoro “legale” ed “illegale”. Questa situazione, oramai consolidata anche nei numeri, oltre ad essere un dato riscontrabile in tutta Europa, pone ai comunisti una inedita sfida teorica e pratica. L’azione concreta per ricomporre, superando razzismo e competizione tra sfruttati, le diverse sezioni del moderno proletariato, acutizzate oltre che dal corso generale della crisi anche dai dispositivi di aggressione e rapina neocoloniale dell’occidente, diventa un banco di prova politicamente qualificante per reggere, anche sul terreno dello scontro di classe immediato, l’intensificarsi della competizione globale interimperialista. A tale scopo sollecitiamo ed appoggiamo tutti i tentativi di organizzazione unitaria tra “bianchi” e “colorati” e ci opponiamo ad ogni provvedimento di differenziazione razzistica nel modo del lavoro e dei lavori.
Ci sono stati episodi concreti e significativi sul piano politico generale (e non solo rivendicativo) che hanno dimostrato l’importanza dell’esistenza dei sindacati di base e della loro capacità di azione autonoma. Il sindacalismo di base, infatti, ha reso possibile che nel 1999 (aggressione alla Jugoslavia) e nel 2003 (aggressione all’Iraq) siano stati convocati degli scioperi generali dei lavoratori contro la guerra, così come è avvenuto in momenti politici significativi nel nostro paese come a Genova nel Luglio 2001, contro la repressione del movimento popolare in Val di Susa nel 2005 e a Vicenza (2006) contro la decisione governativa di costruire una nuova base militare USA al Dal Molin.
Al contrario Cgil-Cisl-Uil non hanno mai voluto convocare scioperi contro la guerra (l’aggressione alla Jugoslavia l’hanno addirittura condivisa assieme alla “sinistra di governo” dell’allora esecutivo D’Alema) ed anche le correnti più avanzate nei sindacati ufficiali (Essere Sindacato prima, Lavoro e Società, Rete 28 Aprile dopo o la stessa Fiom) non hanno mai potuto convocare gli scioperi quando la gravità della situazione politica lo richiedeva non potendo o non essendosi dotati di strutture in grado di operare autonomamente.
Questo limite è stato ancora più evidente quando, a seguito della firma di Cgil-Cisl-Uil al Protocollo del 26 luglio sul Welfare del governo Prodi, gli stessi militanti dissidenti non hanno potuto svolgere la loro opposizione apertamente perché imbrigliati, politicamente ed organizzativamente, nelle pastoie politiciste e burocratiche del sindacalismo concertativo.
Lo strumento/sindacato – pur configurandosi ed agendo in contesti diversi e con modalità peculari – rimane un mezzo di organizzazione e di relazione importante tra i comunisti e i lavoratori, soprattutto se – anche nelle condizioni di una profonda frammentazione di classe come quella attuale – contribuisce a mantenere o ridare identità di classe e non solo obiettivi meramente economici ai lavoratori stessi.
Sulla base di queste considerazioni – che spesso ci hanno visto divergere e discutere con altri compagni in Italia e a livello internazionale – la Rete dei Comunisti intende contribuire al consolidamento del sindacalismo di base ed indipendente ed a tutti i progetti tesi alla costruzione di un vasto ed articolato schieramento anticapitalistico nel nostro paese. Per questo c’è bisogno che nel dibattito sulla ricostruzione di un blocco sociale antagonista al capitale, i comunisti tornino ad utilizzare appieno un metodo di lavoro e di lotta basato sull’inchiesta, il confronto e la sperimentazione, sperimentazione che significa recupero di credibilità e piena internità alle lotte sociali e sindacali.
* membro della segreteria nazionale della Rete dei Comunisti