Un punto de encuentro para las alternativas sociales

La dura concretezza della mondializzazione

Luciano Vasapollo

Se, sul piano globale, gli operai calano di dieci o venti milioni di unità, mentre Cina e India mettono in fabbrica tra i duecento e i trecento milioni di nuovi operai, il lavoro «materiale» è aumentato o diminuito? La risposta è semplice, ma le teorie di moda preferiscono fare i conti col solo cortile di casa (questo pezzetto d’Occidente) e strologare di cambiamenti «epocali» e universali restringendo al massimo la lente di ingrandimento.

Beninteso, senza mai fornire alcuna «misura» dei fenomeni che si pretende di interpretare.


La ponderosa fatica di Luciano Vasapollo e dei suoi colleghi-compagni ispanoamericani ha invece il merito di affrontare questa realtà come un unicum, al cui interno esiste un’ovvia ma articolatissima divisione internazionale del lavoro, che dà perciò conto tanto delle novità (l’«economia della conoscenza») quanto delle moltiplicantesi persistenze (il fabbrichismo fordista, solo in parte delocalizzato nel terzo mondo).

Ricostruendo il quadro delle trasformazioni degli ultimi 50 anni, su scala globale, diventano allora comprensibili fenomeni che hanno disorientato tanta intellighenzia (e classe politica) di sinistra convincendola che «certi strumenti non funzionano più».

Un esempio: negli ultimi 25 anni i tassi di interesse (cominciò Reagan) sono stati costantemente superiori ai tassi di inflazione. Un «intervento dirigistico» («politico») ha perciò consentito un costante e massiccio spostamento di capitali dalla produzione (e perciò anche dai salari) alla finanza (e alle relative rendite).

Sono stati così ingigantite le armi della globalizzazione finanziaria, usate nella competizione mondiale, che hanno permesso la «sussunzione» di interi universi di forme economiche preesistenti (l’ex impero sovietico, Cina, India, Sudamerica) e imposto un’articolazione produttiva sovranazionale che ha schiantato molti degli strumenti di politica economica statuale. Sostituiti dal crescente potere di organismi sovranazionali formalmente «tecnici» (Wto, Fmi, Banca mondiale, Ue), in realtà funzionanti come meta-stato a livello planetario.


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La vida asociativa en los barrios

Antonio Torrico

LA VIDA ASOCIATIVA EN LOS BARRIOS;

DEBILIDAD CRÓNICA Y NECESIDAD DEMOCRATICA.

 

Las Asociaciones de Vecinos, impulsoras del movimiento vecinal, han sido, históricamente, parteras de la vida asociativa en los barrios, jugaron un papel importante en la lucha por mejorar la vida de los ciudadanos, lucharon contra la especulación, por la enseñanza pública, por que hubiera equipamientos culturales y deportivos, por una buena sanidad… Jugaron un papel muy importante, junto al movimiento obrero, en lograr lo que se llamó el salario indirecto, es decir, servicios públicos, que de no existir tendrían que pagarse y por tanto el poder adquisitivo del trabajador disminuiría. A la vez ayudaron enormemente al proceso democrático en España; creando conciencia de su necesidad, practicándola cuando estaba prohibida, luchando por ella y aportando capital humano y experiencia a las diferentes administraciones (principalmente la local).

Pero los barrios populares no han recibido igual que aportaron, la política que se hace hacia ellos (hacia sus ciudadanos), tiene, a mi juicio, muchas deficiencias; incluso cuando hay aportes especiales, como es el caso de la Ley de Barios de la Generalitat de Cataluña. Esta política es en primer lugar de “parcheo” y asistencial, es decir, aborda los problemas en su manifestación, según brotan, pero sin abordar sus causas. En segundo lugar trata los problemas de manera individual, cuando, por el contrario, la inmensa mayoría tienen sus causas y soluciones en el colectivo, es decir en la sociedad. Y por encima de todo, la administración aborda su relación con el ciudadano, desde una perspectiva de consumidor, no como protagonista. En el mejor de los casos, hace las cosas para el pueblo, pero sin él.

Los partidos políticos (principalmente los de izquierdas, que son los que a mí me interesan) y sus militantes han abandonado los barrios. Hay quienes opinan que mejor así, pues para lo que hacen… pero yo creo que es una perdida; éstos aportaron históricamente coherencia y objetivos a largo plazo. Hoy los partidos se relacionan con el territorio teniendo en cuenta solo sus intereses electorales. Creen en una democracia de representación, pero ignoran y desprecian la democracia de participación, sin embargo, ésta es la verdadera democracia, la que realmente nos debería importar.

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Le nostre banlieus

Le nostre banlieus Emergenza del sociale e periferie della politica Il sociale sta vincendo sul politico? Un dibattito e una ricerca da approfondire e condividere

Mercoledi 15 dicembre a Roma presentazione e dibattito sull’ultimo numero di Contropiano (al centro sociale Intifada, via Casalbruciato 15)

L’inserto dell’ultimo numero di Contropiano ha cercato di aprire un confronto ed una ricerca su quella che riteniamo essere l’emergenza del sociale a scapito del politico soprattutto nelle periferie delle grandi aree metropolitane. Il dibattito apertosi in alcuni centri sociali romani dopo l’accoltellamento mortale di un giovane attivista avvenuta questa estate, l’escalation (o meglio l’endemicità) di violenza sociale nelle periferie di Napoli, le rivolte nelle banlieus francesi, hanno cominciato a porre una serie di questioni importanti e sulle quali occorre riflettere e discutere più in profondità. Nelle aree metropolitane delle grandi città, si stanno diffondendo fenomeni aggregativi che supera, copre e stravolge le precedenti forme di aggregazione giovanile. Quanto sta accadendo nelle banlieus in Francia, ma anche nelle periferie delle nostre aree metropolitane, ci sta’ ad indicare come la "cultura della strada" ed il comportamento "sociale" stia prevalendo, sostituendosi sempre più, alla forma che consideravamo più vicina alla nostra comprensione, o almeno ad una sua possibile espressione "politica". Le odierne pesanti ristrutturazioni produttive e sociali, hanno sottoposto in interi segmenti di classe una progressiva eliminazione, delocalizzazione e ridimensionamento delle loro identità e delle loro articolazioni socio-abitative. Tutto ciò ha reso possibile che si affermassero nelle aree metropolitane settori sociali sempre più impoveriti e soprattutto privi di una identità. Assistiamo dunque ad un fenomeno nel quale:."I giovani tendono ad aggregarsi nel tradizionale istituto della banda di strada, basato sulle classi di età, sull’evitare l’altro sesso, sull’unità territoriale e la solidarietà etnica. Quando la libertà individuale diventa lo slogan dietro cui si mobilitano le masse, vuol dire che lo scenario è cambiato. La libertà va valutata sulla base delle azioni, non delle ideologie "L’espansione dei bisogni non coincide con l’incremento del reddito. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Ovvero, la classe dominante controlla la produzione della merce ma è impotente di fronte all’evolversi ed al moltiplicarsi dei suoi valori d’uso. Segnali di un possibile risveglio li abbiamo avuti dalla funzione, fin qui svolta, da quanti hanno messo in piedi l’esperienza dei Centri Sociali. che nella possibilità di creare "forme nuove" di lavoro e di socialità, hanno coinvolto settori soprattutto giovanili. Ma lo sviluppo delle ultime vicende ha però messo in evidenza il "cinismo" di una classe politica interessata più al loro tornaconto personale (anche economico). La politica, come espressione di conflitto sociale collettivo e organizzato verso il sistema dominante in tutti i suoi aspetti, oggi è stata espulsa o rimossa quasi completamente fino a trovarsi, come questa estate a Roma o a Napoli di fronte ad una prevalenza della dimensione sociale sulla politica, dove sono venute meno alcune delle "classiche" categorie per cercare di capirne la portata. In questa fase abbastanza contraddittoria, confusa e delicata può accadere che: il "sociale vinca sul politico!" In pratica di fronte ad una assenza, o debolezza, di una indicazione politica di superamento dell’attuale forma economica e socio-produttiva (alla quale far seguire anche una possibile ipotesi ricompositiva), ciò che prevale è una sorta di cultura di strada. Ovvero quella cultura alla quale e nella quale, sono cresciuti e conformati i giovani di oggi. A questo va senz’altro aggiunto l’enorme aumento della emarginazione e marginalità sociale; dovuta innanzitutto alla massiccia immissione di immigrazione, e relativa mano d’opera molto economica e competitiva, che da anni interessa la società occidentale, soprattutto nelle grandi città. L’attuale classe dirigente è molto interessata allo sfruttamento selvaggio di questa mano d’opera a basso costo e pertanto riempie le periferie di questi lavoratori senza tenere conto delle contraddizioni che queste migrazioni possono produrre. Da parte istituzionale e governativa, riemerge la tentazione di affrontare la contraddizione con la solita politica repressiva e diffamatoria. Chi protesta e disturba il governo "amico", viene accusato di non tener conto dell’interesse generale, di pregiudizi ideologici e di voler solo scatenare il caos e l’ingovernabilità, riconsegnando così il paese al berlusconismo. Una conferma di tutto ciò possiamo trovarla in Jean Baudrillard, quando ci propone: ".una lettura fuori dagli schemi della nostra complessa realtà. .denuncia la follia di un universo politico-tecnologico che ci sta sfuggendo di mano, – un vorticoso turbine di immagini, in cui il virtuale si sostituisce sempre più spesso al reale. il potere.è quasi autistico – è un potere fine a se stesso che si identifica solo con il proprio dominio, senza dialogo e senza relazione con il mondo esterno. – è un potere talmente ottuso che porta in sé il principio della propria sovversione. – è talmente tronfio e pieno di sé che ad un certo punto perde il controllo e implode. – Si mette a nudo, svela la propria maschera, si autodistrugge. – Si è inceppata la dialettica tradizionale che negli ultimi cinque secoli ha animato la politica, vale a dire la dialettica tra il popolo e chi governa nelle sue diverse forme. – il potere non comunica più. – E’ totalmente egocentrico e autocentrato, si autoalimenta e si autogiustifica. – Rappresenta solo se stesso e si sfinisce nella propria autoproduzione. – procede per espulsione, escludendo qualsiasi elemento esterno che rischia di rimetterlo in discussione" – ammette solo l’immagine virtuale che vuole dare di sé. – La corruzione e la perversione diventano allora le regole simboliche del potere" Dunque, un obiettivo delle classi dirigenti è proprio quello di scatenare una "guerra tra poveri" per continuare così a perpetuare il proprio dominio a colpi di misure securitarie e di polizia che precedono e accompagnano misure economico-sociali sempre più draconiane. Il nostro compito sarebbe quello di ostacolare questo percorso. Garanzie di riuscita in società "imperialiste" come la nostra non ve ne sono, ma l’importante è provarci per trovare una lettura e una azione politico-sociale adeguata a rappresentare il conflitto sociale in questa fase. la redazione di Contropiano

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¿Para que una encuesta de clase?

Joan Tafalla

¿Para qué una encuesta de clase?

Joan Tafalla

(Publicado en el número de diciembre de En Lucha)

El concepto de clase y de lucha de clases está devaluado entre la izquierda postmoderna europea. La asunción del discurso dominante comporta la idea de la lucha de clases como concepto inoperante, inútil. Por un lado, la izquierda institucional sólo hace políticas de gestión del capitalismo en su fase actual. Por otro lado, sectores de la extrema izquierda sesentaiochesca, reciclan su discurso en forma de anti-globalización, democracia radical, ecologismo y feminismo. Luchas todas ellas necesarias y respetables y respetadas por el abajofirmante pero  integrables y  a menudo, integradas. Sólo exiguas minorías, tratan de realizar análisis de clase que incorporen los nuevos fenómenos en una perspectiva global. Minorías exiguas pero existentes y operantes.

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Leggiamo Tronti? Obreros y capital hoy

Nicolás González Varela

 

Leggiamo Tronti? Obreros y Capital hoy

 

Nicolás González Varela

fliegecojonera.blogspot.com

 

Había una vez un libro de culto, un libro de destino. Aquí la propia escritura y el texto tienen un carácter divino (como en la Antigüedad, donde había libros ‘celestiales’, ‘sagrados’, ‘litúrgicos’). Que se prestaba con recelo, que circulaba como un auténtico ‘Samizdat’ entre los jóvenes del ’68 italiano (como circulaban los textos de Daniel Guerin entre los franceses). Sólo lo conocíamos por referencias indirectas, citas oscuras o críticas desenfocadas que aumentaban nuestro apetito. Borges dice que las obras maestras suelen ser hijas del azar o de la negligencia. Este libro decisivo y secreto es fruto azaroso de la militancia política. Recuerdo el temblor cuando un editor de la mítica editorial Siglo XXI (que se había exiliado en México debido a la dictadura argentina) me prestó un ejemplar en italiano (¡la edición original de Einaudi de 1966!) para que lo fotocopiara en el día y se lo devolviera. El libro tenía un título enigmático: ‘Operai e Capitale’. Obreros y Capital. No se trataba de una obra íntegra, sino una serie de artículos escritos entre 1962 y 1966. Su autor era un desconocido universitario, militante del PCI en la sección de Ostia (cerca de Roma). Como toda la nuova sinistra italiana de posguerra el libro surgió de una experiencia editorial y de intervención práctica que marco época: los ‘Quaderni Rossi’ (Cuadernos Rojos, con el siguiente motto: ‘espressione di un lavoro teorico e practico di militanti impegnati nelle lotte sindicali e politiche del movimento operaio’). Producto de la maduración de una generación de militantes (y en especial del extraordinario Raniero Panzieri) el desarrollo de un nuevo marxismo crítico y abierto, capaz de realizar una condensación y síntesis de la rica cultura política del ’56, la ‘altra linea’. La nueva crítica se afirmaba en una superación del marxismo tercerointernacionalista (Kritik fuertemente anti-idealista y anti-historicista que intentaba una superación ‘classista’ del estatalismo socialdemócrata y del capitalismo de estado stalinista) y un “ritorno a Marx” serio y filológico (el mismo Panzieri había sido editor en Einaudi y traductor del tomo II de “EL Capital”). La figura liminar de Panzieri amerita un artículo completo pero podemos decir que después de haber participado entre 1956 y 1958 en la experiencia del ala izquierda del PSI (con Rodolfo Morandi) había propuesto reformulaciones sobre una estrategia de controllo operaio en alternativa a las direcciones reformistas sindicales (tesis escritas con Lucio Libertini) para madurar hacia 1960 la necesidad imperiosa de una refundación de la política de organización del nuevo movimiento obrero. Influenciado por Della Volpe (pero también por intentos de sincretismo de la fenomenología con Marx de Giulio Preti) y su idea de reproponer al marxismo como análisis científico de la realidad. El mismo Tronti recordaba la fortuna de haberse topado en la Facultad de Letras de Roma con el marxismo de Della Volpe. No sólo Della Volpe, no sólo Roma: se leían y traducían trabajos de la nueva sociología del trabajo norteamericana, de revistas francesas como ‘Socialisme ou Barbarie’ o ‘Pouvoir Ouvrier’, textos ya canónicos como los de Daniel Mothé y su ‘Journal d’ouvrier’ o experiencias prácticas como las de Cremona (primera co-investigación militante), en las que Danilo Montaldi intentaba desarrollar una nueva cultura política. El espíritu era una paradójica opposizione comunista al comunismo. Pero no era suficiente simplemente constatar la superioridad y autosuficiencia de los clásicos, se trataba de demostrar prácticamente el fundamento del nuevo marxismo no sólo recuperando el discurso del método sino traduciéndolo en intervenciones y conclusiones prácticas coherentes, eficaces. Los Q.R. se proponían no sólo romper totalmente con la ortodoxia, sino además superar los nuevos revisionismos (ideólogos del neocapitalismo, de la neutralidad de la técnica, del fin de la clase obrera) para logra una rilettura de Marx con la reconstrucción de nuevos instrumentos operativos. En la inédita revista colaboran militantes de partidos de toda la izquierda, como Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Dario Lanzardo, Massimo Paci, Antonio Negri (que venía de una experiencia católica), Mario Tronti, además de sindicalistas (Foa, Garavini, Pugno, Alasia). Las primeras divergencias produjeron en 1963, Alquati, Gasparotto y Gobbi fundarán “Gatto Selvaggio”, un volantone que describe las formas de las nuevas luchas y pone en cuestión los modelos sindicales. Una divergencia más profunda surge después del tercer número de la rivista: los miembros del llamado Gruppo Romano (entre ellos Tronti y Asor Rosa) que darán origen a otra publicación y a otro grupo político: ‘Classe Operaia’. Las divergencias centrales eran entre Panzieri y Tronti; para el primero la centralidad es de las relaciones de producción y la crítica a la pretendida neutralidad del desarrollo científico-técnico (l’uso capitalistico delle macchine, como se titulaba uno de sus artículos más destacados que critica tanto al capital como a la URSS). Las relaciones de producción están siempre dentro de las fuerzas productivas. Las relaciones de producción son siempre, según Panzieri, relaciones de poder, por eso se las reclama como clave de lectura del nuevo conflicto social, de las recomposiciones de clase, del nuevo despotismo del capital y de las transformaciones en la forma del estado. ¿Cómo se las lee en su materialidad? Con un viejo método de la encuesta obrera empleado por Marx en 1867: la co-investigación militante (co-ricerca). La muerte imprevista de Panzieri (octubre 1964) acentúa la crisis de los ‘Q.R.’, que sobrevive produciendo una serie de publicaciones (Cronache, Appunti, Lettere) que serán la vigilia del movimiento del ’68. Decíamos que el Gruppo Romano lanzará, luego de separarse de los ‘Q.R.’, un ‘giornale politico mensile degli operai in lotta’, desarrollando muchas de las intuiciones panzierianas pero encuadradas en las coordenadas de la divergencia que Tronti tuvo en 1962. Ya en el ensayo ‘La fabbrica e la societá’ está presente el núcleo teórico no sólo de la divergencia con Panzieri sino el alma de toda una corriente del futuro Operaismo: la clase obrera es el motor del desarrollo capitalista. Se invierte así las intuiciones de la metodología de los ‘Q.R.’, mientras en Panzieri es el desarrollo capitalista el que determina la posibilidad de un nuevo nivel de luchas, para Tronti el desarrollo no es otra cosa que una funzione de la lucha obrera dentro del proceso productivo. En la editorial del primer número Tronti, el famosísimo artículo Lenin in Inghilterra, exaltará todavía más esta contraposición. Hemos visto (por la experiencia en ‘Q.R.’) ‘primero el desarrollo capitalista, después las luchas obreras’. Es un error, dice Tronti, el principio è invece le lotta de classe operaia. El desarrollo del capital se halla subordinado a las luchas, se despliega tras ellas y a ellas se debe el mecanismo político de la propia producción. La fuerza-trabajo nace históricamente homogénea sobre el plano internacional y esta homogeneidad es la que constriñe la forma de dominio del capital. El debate, aunque pareciera puramente académico, se daba sobre el intento de intervenir en la propia lucha de clases: la rottura politica en los ‘Q.R.’ se superponía sobre la lucha victoriosa de los trabajadores metal mecánicos (el mítico suceso de Piazza Statuto en julio del ’62). En el balance del ciclo de luchas que había quebrado el nexo PSI/PCI-sindicato, emergen dos orientaciones: una, la del grupo de Panzieri, el éxito de los trabajadores no sólo confirmaba la incapacidad de la burocracia sindical oficial y sus métodos reformistas, sino señalaba una amplia derrota política de la clase obrera en su conjunto (por ejemplo: la lucha exhibía que ciertos elementos de conciencia política no están implícitos en la combatividad sindical, aún siendo esta altísima y extrema); la del grupo romano (con Tronti y Negri) por el contrario, la derrota sindical de la lucha ha determinado ya en los hechos (en especial en las grandes usinas, la FIAT) un verdadero salto cualitativo de la clase o mejor dicho: de su avanguardie de massa, que no comprende pequeños núcleos de trabajadores, sino la fábrica en su conjunto, con capacidad de guiar en la lucha, como objetivo consciente y organizado, respecto a lo cual elemento sindical es un mero pretexto. Mientras el grupo panzieriano retiene prioritario objetivos de trabajo más cautos y menos optimistas (que apuntaban a una recomposición política de la clase), Tronti retiene ‘en acto’ la recomposición misma de la classe, incluso se ensaya una idea de rotura y revolución a corto plazo. Por supuesto que subyacían a la elaboración de las líneas afinidades políticas (Panzieri con el ala izquierda del PSI; Tronti con su propia militancia en el PCI), modelos teóricos y experiencias de militancia diversa: si el principio de todo es la lucha de clases y, en especial, si la ‘Arbeitskraft’, la fuerza-trabajo es ‘ya’ clase obrera, prescindiendo del lado material de sus organizaciones y del grado de desarrollo del estado y el capital, si el desarrollo político de la classe es el presupuesto teórico del modelo, todo se justifica. Es un círculo vicioso, una hipostatización de un Sujeto ideal: la classe es puesta como sujeto y se excluye todo lado objetivo, todo lo que no sea variable a sí misma, todo está ‘ya’ puesto en el sujeto mismo y todo es como parte de su propia realización. Es un vicio neohegeliano, y ya Panzieri capto este sujeto ideal ‘ya’ puesto como ‘è molto hegeliano, in senso originale, como modo nuovo di rivivere una filosofia della storia. Ma è appunto una filosofia della storia, una filosofia della classe operaia…’ Lo que se extrae del discurso de Tronti es que el capitalismo vive sólo por autosugestión, concluía pesimista Panzieri. ‘Classe Operaia’ inicia su publicación mensual en enero de 1964 con una redacción impresionante: Romano Alquati, Massimo Cacciari, Luciano Ferrari-Bravo, Mario Tronti y Antonio ‘Toni’ Negri. Las colaboraciones son numerosas, con redacciones locales en Milán, Torino, Génova, Firenze, Mestre. Recordemos los nombres de Sergio Bologna, Enzo Grillo (traductor de los Grundrisse de Marx), Adriano Sofri. El propio equipo redactor funciona como centro de agregación política para un trabajo de intervención en la fábrica. Los artículos son en su mayoría anónimos. La atención principal es dedicada a la lucha obrera: análisis de las formas de lucha, categorías de participantes (metalúrgicos, textiles, etc.) participación del estado y de partidos políticos, balance de la lucha sindical, todo en números monográficos. La noción fundamental trontiana (prioridad teórica, histórica y política de la classe) impregna toda la revista, cuya experiencia política hará una parábola que parte de la idea de un conflicto de clase amplio y general para concluir con un repliegue que considera el “uso táctico” realista del viejo PCI. Tronti ya había invertido la vieja fórmula y reclamaba la estrategia como un hecho inmanente a la clase y que el partido es sólo instrumento de la táctica. Si inicialmente servía para justificar y explicar la madurez política de la clase obrera (toda hecha expresión en las luchas), apenas el grupo se encuentra con dificultades políticas en su intervención práctica, la misma sirve ahora para justificar un re-ingreso al PCI legitimado del propio “uso” táctico de los trabajadores comunistas. “C.O.” es una experiencia teórica y política singular, izquierdo-hegeliana, de un lado progresiva y muy de izquierda (con connotaciones de superar el leninismo); por el otro lado, involutiva y reaccionaria. Pero en sus contradicciones es el laboratorio de una elaboración de ruptura, de una creatividad en el retorno a Marx, la trontiana, acta de nacimiento del Operaismo moderno que surge como rara síntesis y punto de cristalización entre la cultura crítica del ’56, las lecciones teóricas de Panzieri, la nueva hermeneútica sobre los textos clásicos e incluso con acento neohegeliano. La experiencia “C.O.” no se reduce a Tronti: allí están los soberbios análisis sociológicos y de co-ricerca en la fábrica de Romano Alquati, primeros análisis de la composición y estratificación interna del proletariado (luego reunidos en otro libro mítico: Sulla FIAT e altri scritti); la serie de análisis sobre al formación de la ideología de la cultura de Alberto Asor Rosa, crítica ácida al inocente populismo de la cultura de izquierda (reunidos en el volumen Intellettuali e classe operaia); incluso Antonio Negri intentando expurgar los vicios ideológicos del trontismo. Alquati, recordando esta etapa, afirmaba que la diferencia fundamental de Tronti respecto al marxismo oficial era la valorización y énfasis cambiado de la más notable fórmula marxiana: el Doppel Charakter del trabajo. Recordemos que para Marx (en el tomo I de Das Kapital) el trabajo bajo el capital tiene un carácter bifacético, que genera movimientos antitéticos. El fetichismo del capital es una caja de Pandora con varias antinomias superpuestas, pero retenía Alquati, Tronti destacaba este doble carácter del trabajo colectivo como estratégico y medular, dándole incluso un énfasis más allá (o acá) de Marx. Era el encuentro inédito entre una nueva clase obrera y una nueva manera de entender la tradición clásica. El discurso sobre la autonomía de la classe nace de esta verificación (aunque sus raíces están en Morandi) de esa mercadería especial llamada “Arbeitskraft” y su potencial negatividad (su no-identificación con los procesos e instituciones del capital, quizá la más grande lección práctica del trontismo). Lo cierto es que había nacido una nueva Tendenza político-teórica destinada a influenciar a toda la nueva izquierda, italiana o no-italiana. La más importante experiencia política, “Potere Operaio”, tendrá como texto sagrado nada más ni nada menos que el libro de Tronti: “’Operai e Capitale’ era la bibbia di Potere Operaio”, recordaba Greppi. Pero antes la propia “C.O.” sufrirá su propia rotura interna, un hilo rojo que atravesaba el problema de autonomía y nueva organización (=partido). Para Tronti el primer objetivo había sido evitar la socialdemocratizzazione del PCI, para luego recomponer adecuadamente la relación clase-partido, como lo señalaba en un número dedicado al tema del partido de clase (Nº 10-12). El slogan era “l’uso operaio del partito”. Y “C.O.” serviría no como germen de una nueva forma organizacional, sino una experiencia pedagógica de formación en contacto con la lucha real, de un gruppo dirigente, que podría luego fungir en la Gran Política, re-introducirse en el PCI (y la CGIL, la central obrera comunista) para darle sentido revolucionario con su relación material (ontológica) con la nueva vanguardia. Tronti recuerda que el motivo final de la ruptura fue está evolución no-intencional de la rivista, que se estaba transformando en un grupo alternativo, en un esbozo organizativo que enfrentaba y competía con la burocracia stalinista en todos los niveles. Rita Di Leo, la más trontiana con Asor Rosa, explicaba que pujaban dos almas en el grupo: una, que quería ayudar al PCI a recuperar su via regia con las luchas obreras; otros que consideraban a “C.O.” como una posibilidad de golpear y superar al PCI en un nuevo nivel. Sobre esta consigna se consumo la nueva escisión. La identidad entre soggetto sociale y el partido histórico (futura perspectiva de la “Autonomía de lo político” del tardo Tronti) ya estaba presente en la primera editorial. Ya Negri en dos artículos (Il comitati di classe di Porto Marghera; Operai senza alliatti) intentaba poner el peso sobre esta identidad pero apuntando hacía otro lado: sobre el comité de base señalaba sin titubeos que las bases y condiciones materiales de una organización están dadas. En otro artículo de 1965 (Lenin e i Soviet nella rivoluzione), aunque no entra de fondo en el debate demuestra que opone el Lenin “loco” de las tesis de abril al Lenin conservador y jefe de estado de Kronstadt y la NEP: ruptura de las masas frente a continuidad. Su búsqueda era radicalizar hacía la izquierda la hipostatización trontiana, mostrando una resistencia clara al nuevo discurso sobre las instituciones del movimiento que comienza a penetrar en los integrantes provenientes de la experiencia comunista. Para Negri la cuestión será otra: “¿Cuáles son las formas a través de las cuales la clase obrera internacional amenaza el desarrollo capitalista? Es éste el nuevo interrogante científico, el nuevo horizonte…”. La ruptura será inevitable, lo que dará forma a una nueva solución de compromiso, la revista “Contropiano”, creada bajo el impacto del mayo italiano del ’68, junto con Asor Rosa y Cacciari (solución que duró dos números) cuando Negri definitivamente opte por el Lenin “loco” anti-partido de 1917: “si el desarrollo sabe ser crisis, si sabe ser estado y violencia… entonces el antagonismo revolucionario de la clase obrera debe recobrar la primacía leninista del romper… romper, enseña Lenin, romper el eslabón más débil de la cadena” (Marx sul ciclo e la crisi; Contropiano, Nº2, 1968, siempre reconociendo la deuda con Tronti). Al final de este artículo la dirección de la revista publica un breve comunicado donde anuncia la renuncia de Negri al equipo editorial. Pero esta ya es otra historia… Mientras Tronti realiza una autocrítica a su pecado de la época de los “Q.R.” que demuestra que la otra cara del idealismo del Sujeto proletario es la aceptación acrítica de la más vulgar empiria: la propia historia del PCI. Reclamando una nueva relación espontaneidad (classe)-organización (partito), Tronti abandona a Lenin en Inglaterra, mientras redescubre al viejo partido comunista en Italia. La Gran Mediación del partido leninista de cuadros es indispensable/irremplazable (ya está allí al autonomía de lo político de nuevo) y sólo un “uso operaio” (que no puede ser pacífico) puede re-establecer la tensión hacia la propia clase. La palabra de orden es que el PCI cambie su línea política, adquiera una cultura proletaria, liquide el populismo y se revitalice en un contacto prístino con la fabbrica. Ninguna crítica a la realidad material de las instituciones históricas: la separación entre activos y pasivos, su propia composición social, su naturaleza des-representativa, su metamorfosis burguesa en el estado de partidos, su separación estructural con el movimiento, la naturaleza alienante de la propia mediación política sans phrase. La crisis de las hipótesis trontianas y las resistencias internas se puede seguir sismográficamente en la periodicidad de la rivista: ocho números en 1964; cuatro en 1965, dos en 1966. El último número de “C.O.” sale en 1967: la objetividad material refuta toda su arquitectura neohegeliana, se verifica la importancia y fuerza de las instituciones históricas de la clase obrera, el valor y el espesor en la mediación de la política burguesa pero también el instinto de innovación y creatividad (ruptura) del nuevo movimiento obrero. No es casualidad que en el Poscritto a la segunda edición de “Operai e Capitale” (1971), Tronti manteniendo su coherencia teórica, descubre que la América política de ayer (la de los años ’30) será nuestro presente histórico de hoy. El “New Deal” es la demostración histórica de cómo una gran iniciativa capitalista es una gran victoria de los trabajadores. Roosevelt es el resultado, in positivo, de la supremacía de la lucha obrera. El Geist obrero puede y quiere desplegarse y encarnarse en cualquier forma; la Will zur macht proletaria se funcionaliza siempre persiguiendo sus propios fines, sin preocuparse de la materialidad de las relaciones de producción, de la naturaleza alienante del capital, del fetichismo de la mercancía. La classe, por definición, puede hacer un uso “in-mediato” de la Mediación (aunque suene tautológico). Embarazoso es seguir las ondas de los ciclos de lucha y las constantes traducciones/traiciones que intenta Tronti: la lucha explota en el ’68, y se mantendrá en el más alto nivel en Occidente hasta 1972, es como si su teoría, gelatinizada en el reflujo y pasividad obrera del 63-66, intentara salvaguardar intacto el ideal del Sujeto. Primero utilizará al propio Hegel (al Hegel más político, título de su libro de 1975); después intentará rescatar la pulsión populare de la revolución inglesa; luego participará del descubrimiento italiano del decisionismo de Carl Schmitt (Marx dopo Schmitt). Todo concluirá con la tesis que cierra toda una parábola: el Político (con mayúsculas, pero en modo particular el partido, que ya a esta altura puede ser incluso la socialdemocracia¡¡¡) es ya totalmente autónomo, de la misma clase obrera, de sus luchas, de sus subjetividades, de sus intereses y necesidades. Ahora la classe concede ella misma la autonomía al partido, liberándolo de la estrecha representación de sus intereses sectoriales, tratando a su propia lucha con autosuficiencia, como momento particular (¡dialéctica!) privado de importancia y que el Político puede cancelar. Ahora el partido puede ser indiferente, incluso oponerse a la misma lucha de clases, puede tranquilamente reprimir (ya lo hará el 7 de abril), porque él ya es, en todos los casos, la expresión (el Ausdruck hegeliano) más auténtica de la classe. Se inaugura la época del ingreso en el Político de las nuevas fuerzas sociales, realizando un doble salto mortal sobre la alienación de la forma representativa burguesa y la reducción de la política al profesionalismo del estado de partidos… Un largo camino ha llevado a Tronti de la autonomia operaia a la autonomía del político, por lo que deberíamos tomar seriamente la matriz filosófica-política (que algún lector atento como Sbardella o Meriggi han definido como de naturaleza idealística `a lá Gentile, actualística y neohegeliana). Muchos creen que la actual posición política de Tronti es una contradicción con sus posiciones de “Operai e Capitale”; otros simplemente coherencia y continuidad. Como sentenciaba Negri, aunque “Quaderni Rossi” y “Classe Operaia” fueron un salto elevadísimo en la teoría, hoy son ilegibles para nosotros y la propia militancia. Se encuentran demasiado situados, demasiado determinados, demasiados ligados a la figura del trabajador fordista de la FIAT. Sin embargo, leggiamo de nuevo a Tronti aunque sepamos que el rojo que se avecinaba en sus textos no era el del amanecer sino el del crepúsculo de una figura social.

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Hacia una historia de la aversión de los obreros al trabajo. Barcelona durante la revolución española, 1936-38.

Michael Seidman

Michael Seidman

El estudio de la aversión al trabajo, -absentismo, retrasos, faltas de puntualidad, delitos, sabotajes, ritmo lento, indisciplina e indiferencia- puede servir para profundizar nuestro conocimiento de dos hechos políticos concurrentes, la Revolución Española y el Frente Popular Francés1*. Un análisis de la aversión al trabajo de las fábricas de París y Barcelona durante el gobierno del Frente Popular en Francia y a lo largo de la Revolución de España, nos revela continuidades esenciales en la vida de la clase trabajadora. Absentismo, indisciplina y otras manifestaciones de la aversión al trabajo existían ya antes de la victoria del Frente Popular en Francia y del estallido de la guerra y la revolución en España. Pero es significativo que esta resistencia persistiera años después de que los partidos y los sindicatos, que decían representar a la clase trabajadora, tomaran en uno y otro caso el poder político y a diferentes niveles también el económico. De hecho los partidos y sindicatos de izquierda en ambas situaciones, la reformista y la revolucionaria, se vieron forzados a incontables enfrentamientos con los obreros que rehusaban trabajar.

La aversión al trabajo en el siglo XX ha sido ignorada y/o subestimada por muchos historiadores marxistas del trabajo y por los teóricos de la modernización, dos importantes, cuando no dominantes, escuelas de la historiografía del trabajo1. A pesar de las diferencias que en muchos casos existen, las dos orientaciones comparten una visión progresista de la historia. Muchos marxistas observan en la clase trabajadora una gradual toma de conciencia de clase, evolucionando de «an sich a für sich», formándose a sí mismos y en ocasiones deseando expropiar los medios de producción. Teóricos de la modernización ven adaptarse a los trabajadores al modo, estructura y a las demandas generales de la sociedad industrial. Ni los marxistas ni los teóricos de la modernización han tenido en cuenta suficientemente la cultura de la clase trabajadora que persiste y que es reveladora de su irrefrenable deseo de no trabajar. Pero esta visión progresista de la clase trabajadora no puede analizar adecuadamente la perseverancia del absentismo, el sabotaje y la indiferencia. Ni tan siquiera -en ambas situaciones- puede ser menospreciada esta actitud como «primitiva» o como ejemplos de «falsa conciencia». La persistencia de muchas formas de aversión al trabajo puede indicar una respuesta comprensible a la dureza a largo plazo en la vida cotidiana de los trabajadores y un saludable escepticismo a las soluciones propuestas por ambos, derechistas e izquierdistas.

Este ensayo examinará la situación revolucionaria en Barcelona, e intentará demostrar la divergencia en la conciencia de clase entre trabajadores militantes de izquierda, partidarios del desarrollo de las fuerzas productivas durante la Revolución Española y el gran número de trabajadores no militantes que continuaron resistiéndose a trabajar, a menudo tal y como habían hecho antes. Por tanto vanos tipos de conciencia de clase se enfrentaron entre sí durante la Revolución Española. No se trata de determinar cual era la «verdadera» forma de la concienciación de clase, sino demostrar como la aversión al trabajo socavaba los deseos revolucionarios de los militantes y puso en tela de juicio sus derechos como representantes de la clase trabajadora.

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Sin duda alguna, la aversión al trabajo tiene una larga historia que arranca desde mucho antes de la Guerra civil y la revolución. En el siglo XIX, los trabajadores catalanes, al igual que sus homónimos franceses, sostenían la tradición del dilluns sant (lunes santo)2*, una fiesta no oficial tomada sin autorización por muchos trabajadores como una continuación de su descanso dominical. Las luchas por el calendario laboral continuaron en el siglo XX, incluso durante la II República. Por ejemplo, en 1932 los trabajadores no querían ir a trabajar el segundo día de mayo, ya que el día primero habla sido domingo. Aún más importante era la lucha constante contra «recuperar» las fiestas entre semana cuando éstas eran fiestas tradicionales. Los trabajadores catalanes a pesar de su anticlericalismo y sentirse profundamente descristianizados persistieron en la celebración de estas fiestas. En 1927, la asociación patronal (Fomento del Trabajo Nacional), localizada en Barcelona, observó que, a despecho de la ley, los patronos que intentaban obligar a sus trabajadores a recuperar los días festivos que no fueran domingo, se tropezaban con serias dificultades2. En la práctica, las huelgas persistieron durante bastantes días en la primavera y el verano de 1927, en protesta por el calendario establecido para los días festivos. En 1929, los trabajadores plantearon una nueva lucha para mantener sus fiestas tradicionales. En la provincia de Barcelona el conflicto fue particularmente intenso, ya que «las presiones de la clase trabajadora estaban obstruyendo la recuperación de festivos entre semana, tal como autorizaba la ley»3. La «tensión social» en Barcelona hizo imposible la recuperación de estos festivos.

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Sobre el surgimiento de los Movimientos de Trabajadores Desocupados

Neoliberalismo y cortes de ruta en Argentina

Para entender el surgimiento de las organizaciones y movimientos de desocupados que cobraron fuerza en los últimos años en nuestro País, para comprender las características de las nuevas formas de lucha, las puebladas, y el surgimiento de nuevos actores sociales y políticos, es necesario repasar brevemente las transformaciones estructurales que vienen dejando más de diez años de políticas neoliberales:

Después de diez años de menemismo y casi un año de gobierno de la Alianza, la deuda externa se triplicó, la mayor parte del patrimonio del Estado se vendió y desnacionalizó, la estructura educativa y sanitaria se degradó profundamente. El mundo del trabajo también sufrió la embestida: pérdida de conquistas históricas de la clase trabajadora, mayor explotación, y de la mano de esto, un nivel de expulsión de mano de obra sobrante, que convierte a los desocupados no ya en un "ejército de reserva", sino en "población exedente", millones de compatriotas que no tienen acceso a los derechos básicos de subsistencia. A la vez, la actividad política fue quedando hegemonizada por dos fuerzas subordinadas al neoliberalismo cuyo único plan es reproducir el sistema actual, con el apoyo de una importante cantidad de dirigentes sindicales que fueron cómplices de la entrega. Esto termina de pintar un panorama con una gran parte del pueblo excluído de la posibilidad de trabajar, y una brecha creciente entre este pueblo y las dirigencias políticas y sindicales tradicionales, producto de la falta de credibilidad que se supo ganar el conjunto de la clase política.

Así, sobre este panorama, adquieren su real dimensión las "puebladas" que cada vez más frecuentemente se dan en el interior del país, protestas masivas que hcieron del "corte de ruta" su arma más efectiva, y que tuvo a los desocupados como uno de los principales protagonistas. Estas protestas, que muchas veces son consideradas "espontáneas", fueron generando lecciones y aprendizajes, que, aunque en forma desordenada y todavía dispersa, van dando como resultado distintos niveles de organización, y nuevos criterios de funcionamiento: la democracia de base, independencia de los partidos políticos y del Estado, la asamblea popular como forma de tomar las decisiones, etc. Estas características estuvieron presentes en los cortes de ruta a partir del 96, en Cutral-Có en General Mosconi y Tartagal, y van teniendo su expresión orgánica en los Movimientos de Trabajadores Desocupados. A partir del corte de la Ruta Nacional Nº2 en Florencio Varela (gran Buenos Aires) en agosto del 97, que le torció el brazo al Gobierno, comienzan a tener presencia en los conflictos en el gran Buenos Aires y en otros puntos del interior del país. Así surgen el M.T.D. "Teresa Rodríguez", en homenaje a la trabajadora asesinada por la policía en la represión en Cutral Có, el M.T.D. "General San Martín" en la provincia de Chaco, y otros "MTD" a secas que se van conformando en las barriadas populares, como forma de darle una organización perdurable a las luchas por el trabajo. Otras expresiones como los "Autoconvocados" en Corrientes, los Cabildos Abiertos, surgieron también en el interior del país como ámbitos de autoorganización de los diversos sectores en lucha.

Pero no son luchas meramente reicindicativas: tenemos consciencia de que la raíz de estas políticas antipopulares está en el orden social injusto que nos domina. Por eso, definimos para el Movimiento las banderas que unifican nuestras luchas:

TRABAJO, porque es de lo que nos privan y lo que exigimos como derecho impostergable, porque somos parte de la cultura del trabajo que con tanta lucha y sacrificio forjaron los mejores hombres de nuestra historia.

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Los nuevos espacios de lucha. El movimiento obrero y sus posibilidades para el siglo XXI

Carlos Gutiérrez

(Corriente Roja/Espai Marx)

No cabe ninguna duda de que nos encontramos, al menos en los países centrales del sistema capitalista, en plena transición entre el sistema de organización de la producción fordista y uno nuevo al que podemos calificar de post-fordista. Este hecho no excluye la convivencia del nuevo sistema, en las mismas metrópolis urbanas de los países desarrollados, con otros modelos como aún el fordista, y en algunos casos con formas de trabajo más similares a la semi-esclavitud. Utilizando términos gramscianos podríamos decir que nos encontramos ante una segunda "revolución pasiva" del capital -considerando como primera revolución pasiva la implantación del sistema taylor-fordista-.

Si la primera de estas revoluciones llevadas a cabo por el capital tenía como claro objetivo evitar el peligro que para el propio sistema suponía que los nuevos trabajadores industriales -en su mayoría herederos del tipo de trabajo artesanal y deudos de un específico modelo de cultura proletaria- fueran capaces de controlar completamente el proceso productivo, esta segunda va directamente dirigida a acabar con toda la serie de casamatas defensivas conquistadas por el movimiento obrero durante largos años de lucha. Un movimiento obrero que había sabido responder a la ofensiva del modelo fordista: separación entre ideación, ejecución y control, verticalidad, concentración, extrema especialización, gigantismo, etc., y que había hecho de el mismo lugar de la explotación, la fábrica fordista, lugar privilegiado para la socialización de experiencias y organización de las luchas.

Si hay una enseñanza que el movimiento obrero debe tener clara a través de su larga experiencia de lucha es la capacidad del capitalismo para adaptarse y para tratar de neutralizar al propio movimiento, bien con la cooptación de las distintas direcciones, bien abordando distintos cambios en los modelos organizativos y en los procesos de producción. El objetivo último de todos estos cambios es siempre "disciplinar" al proletariado y moldear una clase obrera -dócil y fragmentada a poder ser- que resulte idónea para los planes de los explotadores. Ya en los albores de la organización fordista del trabajo se realizaban estudios, por parte de los capitalistas, sobre las costumbres y la vida cotidiana -incluso sexual- de los trabajadores, para tratar de adecuarlas al tipo de trabajo simple y repetitivo propio de la época.

Partiendo del reconocimiento de la centralidad de la contradicción capital-trabajo, no debemos en ningún momento caer en la tentación de descalificar, o de calificar de revisionistas, aquellos análisis que intentan describir cuales son los cambios que han ocurrido en la morfología del capitalismo y su correspondiente correlato en el movimiento obrero. Deberemos, al contrario, ser muy críticos con aquellos que pretenden convencernos de que, obviando el uso de una herramienta tan fundamental como el materialismo histórico y cayendo en una suerte de "presentismo", nada ha cambiado y nos encontramos ante un capitalismo y una clase obrera que contienen las mismas características y posibilidades que las existentes a principios del siglo XX. En esta falta de comprensión de la ofensiva capitalista, más que en la traición de las direcciones, que la habido, y en la falta de análisis y de alternativas ante ella, se halla la base genética de la profunda crisis en la que se encuentra sumido el movimiento obrero y la izquierda en general.

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